I sotterfugi, i piccoli trucchi, le scopiazzature sono sempre stati il contorno che ha dato sapore alla nostra vita scolastica. E farla in barba al professore è una piccola soddisfazione o una piccola vendetta che riscatta lo studente da qualche eccesso che inevitabilmente arriva dalla parte dei docenti. Questo accade non solo nella scuola: anche l’università possiede un inventario fantasioso di trasgressioni ai comportamenti convenzionalmente corretto. Alla fine, il diploma si ottiene ugualmente con un merito che è maggiore o minore non in relazione agli umani trucchi talvolta usati, ma alla capacità di apprendimento e alla dedizione per lo studio. In oltre 30 anni di insegnamento posso garantire che, gira e rigira, i conti sono sempre tornati.
Ma c’è un «ma» grande e pesante. Lo studente si arrangiava da sé, non aveva complici tra i professori, riconosceva l’autorevolezza dell’istituzione accademica, era consapevole che il merito (pur con qualche incidente di percorso) era tenuto in considerazione. In queste condizioni la truffa, grande o piccola che fosse, poteva essere assorbita nella fisiologia della didattica e delle verifiche attraverso gli esami.
Le truffe nell’ateneo barese e nelle altre università incriminate non contemplano queste condizioni, e non perché lo studente ha aumentato la sua spregiudicatezza nell’inganno, ma perché l’università ha perduto l’immagine dell’autorevolezza, i professori si fanno complici senza pudori degli studenti truffaldini, perché il merito è una parola pressoché ignota nell'università. A tutto questo si deve aggiungere il cosiddetto «numero chiuso».
Numero chiuso significa che non ci si può iscrivere liberamente a una facoltà. Di per sé la cosa è giusta: si programmano le possibilità di assorbimento degli studenti e si valutano le possibilità offerte dal mercato del lavoro. Ma come si verificano, poi, le capacità e le attitudini del giovane? Attraverso test, domandine e quiz. Invece di coordinare scuola e università per una valutazione organica del giovane, cosicché si possa avere un quadro accettabile della maturità, delle attitudini e della cultura dello studente, si rimanda tutto alla prova di ammissione: o la va o la spacca.
Adesso si tirino le somme: professori senza dignità pronti a farsi corrompere, meritocrazia zero, università esamificio, test di ammissione come un terno al lotto finiscono per creare un totale disamore, la mancanza di rispetto, l’irrisione dell’istituzione, della classe docente e del titolo di studio. È l’università malata, e la malattia contagia i suoi utenti: primi tra tutti i giovani.
È un «chi se ne frega» generalizzato: lo studente sa che se ce la fa entra in un’università che non gli dà alcuna certezza che la sua laurea sia spendibile sul mercato del lavoro. Ma senza laurea è molto peggio, crescono le incertezze. Si tenta, si è disposti a corrompere perché: «Chi se ne frega, è tutto un casino». E i professori?
Sono considerati poco o niente (nella maggioranza dei casi), e poco guadagnano rispetto ai colleghi europei. E allora: «Chi se ne frega».
Il rimedio è semplice: guardare quello che ha fatto la Francia per spazzare via dall’università la mentalità sessantottina, quella della sindacalizzazione dei docenti che insegnano senza uno straccio di concorso, quella della prolificazione clientelare delle cattedre, quella del menefreghismo nella valutazione del merito.
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