Risposta obbligata

Amarezza, tanta. E il presidente di turno dell'Unione Europea, il lussemburghese Juncker, è stato insolitamente schietto nel descrivere la propria profonda delusione per il fallimento del vertice di Bruxelles. Lui, come tanti europeisti, sperava in uno scatto d'orgoglio dopo il trionfo dei no nei referendum in Francia e Olanda e invece i Venticinque hanno deciso di rinviare ogni decisione sul destino della Costituzione e sul nuovo bilancio comunitario. Eppure potrebbe non essere un dramma. E non solo perché, come ha sottolineato Berlusconi, c'è un anno di tempo per raggiungere un'intesa. Questo fallimento può rappresentare un'opportunità per chiarire, una volta per tutte, quale Europa vogliamo. In fondo è quel che chiedono i cittadini: non capiscono più le regole del gioco. E non si tratta solo dei tecnicismi che regolano i rapporti tra Commissione europea, Parlamento di Strasburgo e i singoli Stati che operano attraverso le riunioni del Consiglio europeo, come quello appena concluso. Non capiscono quale credibilità possa avere un club che garantisce pari diritti a tutti i membri, anche quando alcuni di loro perseguono interessi e visioni diversi da quelli della maggioranza. Questo è il punto: oggi abbiamo un'Europa composta dai dodici Paesi che hanno adottato l'euro e che hanno sviluppato una forte integrazione economico-finanziaria. Una seconda Europa composta dai tre Stati che, per ragioni diverse, non intendono adottare la moneta unica: Gran Bretagna, Danimarca e Svezia. Poi una terza Europa, costituita dai dieci Paesi ammessi nel 2004 che si stanno adeguando alle regole di Maastricht e che pertanto nel giro di pochi anni entreranno nel club dell'euro. Infine c'è una quarta Europa: quella che, nonostante il caos istituzionale in cui è sprofondata, ha deciso di ammettere, a partire dal 2007, altri due membri, Bulgaria e Romania, estranei per sviluppo sociale, economico e politico agli altri Venticinque, e che a ottobre aprirà negoziati ufficiali con la Turchia, malgrado le diffuse perplessità dell'opinione pubblica continentale.
La prima domanda sorge spontanea ed è dettata dal buon senso: come può una comunità politica funzionare in queste condizioni? La seconda è conseguente: perché i dodici Paesi dell'euro che sono chiamati a risolvere cruciali problemi strutturali (noi italiani lo sappiamo bene) devono sottostare ai ricatti di Paesi che per propria scelta hanno deciso di stare ai margini della Ue, ma che hanno potere di veto? La terza è inevitabile: che l'economia comunitaria debba accelerare il processo di liberalizzazione è chiaro a tutti, ma che possa essere ridotta a un'area di libero scambio, come chiede Londra, è non solo anacronistico, ma a lungo andare distruttivo; la storia insegna che le unioni monetarie si consolidano nel tempo solo quando i singoli Stati rinunciano in parte alla propria sovranità politica a favore di uno Stato perlomeno confederale. E allora perché la Gran Bretagna si ostina a battere questa strada?
Questioni tutt'altro che nuove, eppure per troppo tempo rimosse. Ora non più eludibili. Seppur fallito, il vertice europeo ha infatti fornito indicazioni fondamentali sulle intenzioni dei membri del Club Europa. Ha dimostrato che Blair, uscito indebolito dalle elezioni politiche, deve assecondare l'euroscetticismo del suo Paese e non è disposto a compiere sacrifici per la causa europeista: è stato lui a impedire l'accordo sul bilancio, ostinandosi nel difendere lo «sconto» sui contributi risalente ai tempi dalla Thatcher. Ha dimostrato che, nonostante la delusione dei referendum di Francia e Olanda, i dieci nuovi Paesi continuano a credere al progetto comunitario con slancio commovente: a Bruxelles erano pronti a sacrificare parte delle loro risorse economiche pur di far quadrare i conti. E ha dimostrato che i Paesi fondatori - Italia, Francia e Germania -, nonostante gli errori di Schröder e soprattutto di Chirac, continuano a perseguire un disegno di lungo periodo.


Certo, la soluzione non verrà trovata domani e in futuro i Venticinque ci riserveranno altre delusioni Ma a dispetto del pessimismo diffuso, questo summit ha avuto un grande merito: quello di costringere tutti a interrogarsi e a far chiarezza per portare l'Unione Europea su una nuova strada, lungo la quale alcuni Paesi saranno autorizzati a integrarsi ulteriormente e altri, pur rimanendo nel club, avranno diritti - e doveri - limitati. Perlomeno c'è da sperarlo: l'alternativa è l'immobilismo che porta allo sfascio.
marcello.foa@ilgiornale.it

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