Rispunta Gheddafi e minaccia: «Porteremo la guerra in Italia»

Il Colonnello Gheddafi minaccia di portarci la guerra in casa. Le sua sparate fanno parte di una strategia propagandistica, ma questa volta si è scatenato, con particolare enfasi, contro il nostro Paese in un discorso fiume di 80 minuti trasmesso dalla tv libica. «Tra noi e l’Italia è guerra aperta» ha annunciato il Colonnello. Lo spunto storico è stata la ricorrenza della battaglia di Gardabiya, contro gli italiani, ai tempi coloniali.
«Sono rattristato dal fatto che la popolazione di Sirte (la città natale del Colonnello, ndr) abbia gridato alla vendetta e minacciato di trasferire la guerra in Italia» ha esordito Gheddafi. Con alle spalle un poster dei cavalieri berberi, che si era portato a Roma durante la sua ultima visita, il Colonnello si è sempre riferito a presunte richieste della piazza. Secondo lui i suoi giovani fan «hanno dichiarato che è ormai guerra aperta tra noi e l’Italia, perché avete ucciso i nostri figli oggi come nel 1911. Ma come potete inviare i vostri aerei per bombardare i libici nel giorno della ricorrenza della battaglia di Gherdabia?».
Molto attento alle crepe politiche nel nostro Paese, sull’attacco alla Libia, il Rais ha chiamato in causa il presidente del Consiglio: «Il mio amico Silvio Berlusconi ha commesso un crimine e l’ha commesso il Parlamento (autorizzando i bombardamenti, ndr). Solo l’amico popolo italiano vuole la pace». Il fondatore del regime libico ci ha accusato di «attuare la stessa politica fascista dei tempi dell’occupazione». Poi ha ricordato che ci eravamo scusati per il colonialismo, ma ora ripetiamo lo stesso errore.
«Con rammarico prendiamo atto che l’amicizia tra i due popoli è persa - ha concluso Gheddafi - e che i rapporti economici e finanziari sono stati distrutti. Io non posso porre un veto sulle decisione dei libici che vogliono difendere la loro vita e la loro terra trasferendo la battaglia nei territori nemici». Gli ha fatto eco uno dei figli, Seif el Islam: «La storia si ripete, l’Italia ritorna con i suoi alleati occidentali a bombardare la Libia e a distruggere Misurata», la terza città del Paese dove i nostri caccia cercano di allentare l’assedio dei governativi. Gli uomini rana di Gheddafi sono riusciti a minare l’accesso al porto, unica via di fuga e di rifornimento bloccando le navi di aiuti. La flotta della Nato sta provando a riaprire un varco via mare.
Nel 1986, come rappresaglia ai bombardamenti americani della Libia, Gheddafi fece lanciare due «presunti» missili verso Lampedusa. Teoricamente esplosero in mare, ma degli ordigni non venne mai trovata una sola scheggia. Non a caso l’intelligence sostiene che, oggi «le parole di Gheddafi non vanno sottovalutate, ma non ci sono allarmi specifici».
Il Colonnello ha già cominciato ad usare la «bomba» dei clandestini aprendo i cancelli ai migranti diretti in Europa. Negli ultimi due giorni sono sbarcati a Lampedusa 2.000 disgraziati africani, in gran parte provenienti dalle coste libiche. Un’imbarcazione, con a bordo 360 persone, è giunta sulla spiaggia dell’Isola dei Conigli, mentre un altro natante, che trasportava 500 migranti, è stato soccorso a una decina di miglia dall’isola. Un terzo barcone con oltre 500 clandestini a bordo ha lanciato l’Sos con un telefono satellitare a una quarantina di miglia da Lampedusa.
Nel discorso fiume in tv il Colonnello ha ribadito che non lascerà il potere: «Sono sacro per il popolo libico, un simbolo e un padre per loro, più sacro dell’imperatore del Giappone». Poi, però, ha lanciato un’esca alla Nato: «Siamo pronti a negoziare con Usa e Francia, ma senza precondizioni. Se volete petrolio, firmeremo contratti con le vostre aziende, non vale la pena andare in guerra per questo». Per l’ennesima volta il Colonnello si è detto disponibile «a un cessate il fuoco, ma non da una parte sola».

L’Alleanza atlantica ha risposto che «servono fatti, non parole». Non solo: durante il discorso i caccia alleati hanno lanciato tre missili nei dintorni della televisione di stato a Tripoli, che ha mandato in onda il Colonnello.
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