Risse, follie e incapacità ma la casta delle toghe resta sempre impunita

C’è il giudice che verbalizza gli spostamenti al bagno dei colleghi e un altro che deve avere dentro di sé il diavoletto dell’artista. Dadaista. E che ti combina il creativo? Eccola, la trovata: riempie di nutella i wc frequentati dai colleghi. Per la precisione, si dà da fare nel bagno riservato ai giudici del civile. Capita. Capita anche questo. Secondo l’accusa, Giovanni B., giudice del tribunale di sorveglianza di una città della Sardegna, «ha cosparso gli elementi del bagno con abbondanti strisciate di nutella». La giustificazione? «È una sana manifestazione di esuberanza goliardica». Punti di vista. «Il fatto è pacifico - sentenzia il Csm - ed è consistito nell’aver cosparso i sanitari con il noto prodotto a base di cioccolato e arachidi». Lo stesso giudice, al termine di uno stringente interrogatorio, ammette il misfatto: «Io mi rendo conto di aver fatto una cosa che avrei fatto meglio a non fare. È stata un’idea balzana e maldestra». E come dargli torto. Anche perché, come nota saggiamente il Csm, «l’ufficio giudiziario non è sicuramente il luogo in cui il magistrato possa dare sfogo a privati e personali desideri di divertimento e di scherzo». Ma allora come punire l’esuberanza goliardica? Il 28 luglio 2005 ecco il verdetto. Ammonimento. Come dire un buffetto sulla guancia. La più soft delle sanzioni previste dal «tribunale» dei giudici. Ammonimento, anche «in considerazione della completa e sincera ammissione di colpevolezza». Speriamo che della nutella a palazzo di giustizia non si parli più.
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RITARDI ASTRONOMICI
Siamo abituati ai ritardi dei treni, ma forse dovremmo imparare a contare anche il tempo di attesa per una sentenza. Al tribunale di una città laziale, sezione lavoro, l’hanno fatto gli ispettori. Sono partiti dalla data in cui era previsto il provvedimento, hanno aggiunto 120 giorni di tolleranza - 4 mesi dunque -, poi hanno cominciato a inseguire nel tempo le pratiche in mano al giudice Nicola D. E alla fine hanno compilato l’elenco. Una lista che è una bandiera a lutto per la giustizia italiana. Possibile? Tre sentenze sono state depositate con un ritardo superiore ai mille giorni; altre 9 con un affanno oscillante fra i 900 e i 1000 giorni; 10 con una forbice compresa fra gli 800 e i 900 giorni e 21 fra i 700 e gli 800. Un attimo: il «necrologio» non finisce qui: per 67 sentenze l’extratime si situa nella fascia fra i 600 e i 700 giorni. Come dire, due anni di attesa più del dovuto. Ha senso interrogarsi sui ritardi della giustizia, promuovere dotti convegni e lanciare accuse ai governi, se poi troviamo situazioni del genere? La fotografia scattata dagli ispettori del Ministero - che copre il periodo compreso fra il 19 giugno 2000 e il 26 maggio 2004 - è davvero impietosa. Nicola D. conclude 74 cause sforando di 500-600 giorni; in 68 occasioni passa il termine di 400-500 giorni e in 86 limita il danno ai 300-400 giorni. Un anno di attesa non ragionevole. Altro che i treni. I faldoni viaggiano ad una velocità imbarazzante. I ritardi si accumulano sui ritardi. Per di più in una città che dovrebbe essere fuori dalle grandi direttrici, dai grandi numeri, dalle congestioni di Milano o di Roma. Il piccolo centro laziale rimanda alla cartolina di provincia, ad una dimensione a misura d’uomo, a strutture non faraoniche. Errore. Siamo davanti a cifre senza possibile redenzione: un disservizio a ciclo continuo. E allora 13 dicembre 2006 il Csm punisce Nicola D. Con la censura che non è uno scappellotto, come l’ammonimento, ma poco di più. Ed è la stessa punizione che, guardacaso, era già stata inflitta nel passato a Nicola D. Si torna purtroppo alla casella di partenza, in una sorta di gioco dell’oca. E poi la censura non è una sanzione in grado di far male. Incide pochissimo, quasi nulla, sulla carriera. Che prosegue come prima. O quasi.
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«TI SPACCO IL C...»
Dario F. probabilmente non ha mai letto il Galateo di monsignor Della Casa. Altrimenti avrebbe temperato i toni, in ossequio alle buone maniere e all’etichetta. Invece, almeno una volta, quel che si chiama educazione l’ha buttata nel cestino. Appallottolata come un fazzolettino usato. È il luglio 2006 e il magistrato, in servizio in una città della Sardegna, incontra per strada l’avvocato Roberto V. Il giudice dev’essere invelenito, poi chissà, forse quella notte non ha dormito bene, o ha altri crucci per la testa. Fatto sta che apostrofa immediatamente il legale con un linguaggio da scaricatore di porto: «Tu l’altra mattina, mentre andavo in tribunale, mi hai detto c...; adesso ti spacco il c...». Elegantissimo, Dario F. Passa qualche tempo e i due si vedono: è un incontro chiarificatore, come si dice in questi casi. Ma chiarisce fino ad un certo punto. Il magistrato ammette di aver esagerato, di essersi comportato come un teppista. Ma ribadisce la propria convinzione: «Ho ragione». Secondo il Csm, «si è reso autore di un reato (minaccia), anche se l’azione penale non era stata esercitata per difetto di querela». In poche parole, l’avvocato ha pensato bene di lasciar perdere. Ma il Csm non può far finta di niente. Ne va del decoro della corporazione. La toga del magistrato non può essere indossata sulla corazza dell’arroganza. L’11 aprile 2008 la Disciplinare infligge a Dario F. la sanzione dell’ammonimento. Poca cosa. Meglio di niente.
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DIMENTICATO AI DOMICILIARI
Dimenticato per 105 giorni agli arresti domiciliari. Per la Disciplinare, il comportamento del pm «smemorato» è «del tutto irrilevante». Testuale. È incredibile, ma ci sono situazioni in cui, per la complessità, o per le difficoltà all’ordine del giorno, tuto è permesso. Anche perdere un detenuto come un pacco. Per mesi. Non importa. Una riga basta per seppellire l’incidente, senza neanche rivolgere le scuse all’interessato. Avvilente, ma qualche volta il Csm ragiona così. Siamo in Sicilia, terra certamente difficile, ed entriamo nell’ufficio del pm Marco N. È la fine del 2001 e Marco non controlla la scadenza del termine di custodia cautela di un indagato che è ai domiciliari: Federico A., che resta rinchiuso in casa ben oltre la data spartiacque del 17 ottobre 2001. Dopo tre mesi e più, finalmente, dalla Procura parte la richiesta di rinvio a giudizio: il gip riceve il fascicolo relativo a Federico, lo legge e immediatamente si accorge del gravissimo ritardo. Il 30 gennaio 2002 scarcera Federico, 105 giorni dopo il 17 ottobre. Brutta pagina, davvero. Ma il Csm ha pazienza. Molta pazienza. E assolve il giudice con una motivazione scioccante: «In un contesto del genere - insomma in un ufficio problematico, con mille grane e mille problemi - una singola dimenticanza, sia pure nella delicatissima materia della libertà personale, è del tutto irrilevante da un punto di vista disciplinare».
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IL TRIBUNALE NON SORVEGLIA
Ci sono giudici che lavorano, ma sono distratti. O vanno per le spicce. E non si accorgono di quel che scrivono. Perché altrimenti sorriderebbero degli svarioni in cui sono incappati. Luigi B. ha creato una piccola collezione di provvedimenti-gaffe. Un esempio? Il magistrato, attivo al tribunale di sorveglianza di una città dell’Emilia Romagna, ha concesso a un detenuto il permesso di incontrare la figlia per il compleanno. Solo che l’ha dato con cadenza mensile. Sinceramente, non si era mai sentito di una bambina che spegne le candeline ogni 30 giorni. Di più, l’ineffabile giudice ha fatto resuscitare - sempre secondo il capo d’accusa - un morto. Come? Ha dato a un altro carcerato l’ok per andare a visitare il fratello in imminente pericolo di vita dopo avergli accordato il permesso di partecipare al suo funerale. Miracolo di quella medicina che è la giustizia. E via di questo passo. Fino a concedere il permesso di lavoro esterno al carcere per 16-17 ore quotidiane. Ma chi sarà quello stakanovista che sgobba 16-17 ore al dì? Il 16 febbraio 2007 Luigi B. viene ammonito. Per la Disciplinare questa sanzione è sufficiente, anche se Luigi B. ha ridicolizzato, con i suoi provvedimenti, la funzione che ricopre.
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L’ELEMOSINA
Sono le 19 del 25 maggio 2001. Federico E., ispettore di polizia, ha appena lasciato il Palazzo di giustizia di una città della Sardegna. Fa pochi passi e vede due persone che chiedono l’elemosina. La prima indossa abiti stracciati, ha il volto sofferente, è la classica mendicante, l’altra no: è ben vestita e ingioiellata. Strano. La osserva meglio. Resta sconvolto. A bocca aperta. Ma sì, davanti a lui, con la mano tesa, c’è Lucia A., sostituto procuratore della Repubblica. Lei ammette e dà la propria versione: quella sera ha incontrato Maria, una povera donna che conosce da 3 mesi. In tante altre occasioni l’ha aiutata, regalandole gli spiccioli, come spesso capita. Ma quella sera non ha niente in tasca e allora la vicenda prende un’altra piega. Scatta la compassione, una voce dal cuore si fa strada dentro di lei: dalle una mano. Suggerimento attuato alla lettera. Così, in un attimo, l’affianca e allunga il braccio nel gesto più antico. Il Csm studia in profondità la pratica, sottolinea «la devastante esperienza depressiva» vissuta dal giudice, «il collasso dell’io, l’emorragia dell’autostima».

Risultato: Lucia A. viene assolta «per aver agito in stato di incapacità di intendere e di volere». Domanda semplice semplice: ma se non è imputabile, come farà a svolgere il proprio delicatissimo compito? Attendiamo la risposta.

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