Risse al Parlamento? Un’onorevole abitudine dei nostri onorevoli

Caro rubrichista, ho visto lo spettacolo dei nostri rissosi parlamentari e molto poco clamore attorno a quelle immagini. Mi viene in mente però che quando risse del genere accadono su un campo di calcio, ci si aprono i telegiornali al titolo di «spettacolo indegno». Peccato che lì si tratti di ragazzotti poco più che ventenni pagati per tirare calci ad un pallone e con un livello culturale non certo elevatissimo. Ed invece qui (in Parlamento) abbiamo dei 50/60enni la cui cultura dovrebbe essere un gradino al di sopra rispetto a quella dei calciatori e che, per caso, immagino, dovremmo chiamare «onorevoli». Mi viene in mente di dire: onorevoli di cosa? Oppure, citando Totò: «Onorevole? Prrrr...»
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Va bene che l’indice di gradimento dei parlamentari non è mai stato così basso, però, via, caro Scalabrino, gli «onorevoli» restano pur sempre i rappresentanti del popolo (sovrano), ecchediamine. Prenderli a pernacchioni, no, non sta bene (a calci nel sedere, allora? Mah). Che poi lei è troppo giovane per ricordare, ma sappia, amico mio, che di risse in Parlamento se ne videro anche in tempi di grande responsabilità istituzionale. Quando cioè il Parlamento era davvero il luogo deputato al dibattito politico, oggi trasferitosi nei talk show televisivi, o sulle sabbie di Sabaudia o di Capalbio. Anni in cui i parlamentari se non avevano le pezze al sedere poco ci mancava perché la paga era quella che era e metà se ne andava al partito o alla corrente. Però tutti in giacca (lisa) e cravatta. Mica come adesso, coi maschietti che mostrano il petto villoso sotto la camicia aperta e le femminucce con calzoni alla zompafosso e tacco da 30. A quei tempi, l’aula si mostrava sempre al gran completo, mentre oggi che se ne conti venti (metà dei quali appisolati, l’altra metà che legge i giornali o telefona alla morosa) è grasso che cola. Bene, anche quando il Parlamento era il cuore pulsante della Repubblica, quando solennità e rigore se la disputavano, si venne e non poche volte alle mani. Comunisti che s’avventavano sui tremebondi democristiani, socialisti che inseguivano tra gli scranni, per poi menarli, i missini, missini che a loro volta lanciavano qualsivoglia oggetto contundente all’indirizzo dei bolscevichi. E i commessi, ancora non capelloni, ancora non appesantiti da ori e altre caccavelle ai polsi e alle dita, a dividere i contendenti che se le davano di santa ragione. Però nessuno se ne indignava. Perché le risse, gli sganassoni, il pugno nell’occhio e lo strappo della giacca (lisa), erano visti come «vivacità del dibattito politico», civile e «forte» manifestazione di dissenso, passione ideologica che esuberava un tantinello, opposizione attiva e fisica vuoi al baciapilismo democristiano, vuoi al trinaricismo dei compagni comunisti, tanto per rimanere ai due schieramenti di maggior pondo.
Eh, caro Scalabrino, l’avesse visto Giuliano Pajetta il giorno che la Camera votò per l’ingresso dell’Italia nella Nato: l’incredibile Hulk, pareva ed era anche verde, di rabbia. Grazie a lui s’accese una mischia, ma che dico?: un pestaggio che nemmeno nei vicoli di Marsiglia ai tempi di Pépé le Moko. E per la Legge truffa? Lì volò l’intera dotazione di suppellettili e perfino qualche banco di Montecitorio, oltre naturalmente un buon numero di cazzotti. Questo per dirle, caro Scalabrino, che non è questione né d’età né di cultura.

Apostoli, a parole, del «dialogo» e del «confronto», (dialogo qui, dialogo là, confronto qui, confronto là), che sia il «manto erboso», come lo chiamano i telecronisti, o la moquette di Montecitorio e palazzo Madama, nei fatti a dettar legge sono i modi garbati, la civile dialettica di Ivan Drago, quello del: «Ti spiezzo in due...», per intenderci.

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