MilanoDiciamo che ci siamo quasi. Sulla copertina del suo nuovo cd Roadsinger il nome Yusuf è perfino più piccolo di Cat Stevens e la parola Islam è sparita del tutto, salvo un riferimento piccolo così nellindirizzo email: www.jusufislam.com. È un segno dei tempi, e non solo il risultato di unevoluzione inevitabile anche per chi trentadue anni fa ci convertì allIslam, cambiò nome e mandò tutto al diavolo, successo fama e lussi, per concentrarsi su studio e riflessione. «Adesso il pubblico vuole ascoltarmi di nuovo mentre suono la chitarra», ha detto lui. Dunque, esce il secondo disco del secondo Cat Stevens, quello riapparso nel 2006, e se non è un gran disco poco ci manca. I testi, quelli, sono autentiche novelle come Everytime I dream, oppure nenie dolci e corali come To be what you must e ancora cronache spaventose e simpatetiche alla maniera di Shamsia, dedicato a una giovane afghana che si ribella alla follia integralista e continua ad andare a scuola, a studiare, a crescere. E poi la voce, che voce: sognante e malinconica, crepita come il legno quando il fuoco brucia piano nel camino. Cè unispirazione, tra queste undici canzoni, che soffia viva dallinizio alla fine, accompagnata da una chitarra acustica calda come un punch di quelli che lui beve nella «red room», la sua inseparabile stanza rossa che ha trasferito da Soho a nord est di Londra. Come accade ai grandi artisti, a sessantanni anche Cat Stevens è arrivato a unaltra tappa del suo cammino. E se An other cup del 2006 era più energico e orchestrato, quasi volesse dimostrare di non aver perso lo smalto dopo così tanto tempo, questo è il vero disco del ritorno. Il ritorno a un folk acustico e quasi mistico di intensità assoluta. Il ritorno allOccidente della forma e della convivenza. Perciò ci siamo quasi, e riecco Cat Stevens finalmente allo stato puro, comera ai tempi di Tea for the tillerman oppure Teaser and the firecat, primi anni Settanta, secoli fa. Da allora la sua storia è stata una convergenza parallela, il grande pubblico e la conversione, le canzoni in giro per il mondo e lui isolato da quasi tutti. Per intenderci, dal 1991 Cat Stevens ha venduto oltre sei milioni di copie solo di repertorio e solo negli Stati Uniti, roba da superstar anche perché brani come Father and son o Wild world sono in radio tutti i giorni, diventano colonne sonore di film o di spot, tempestano i karaoke o i talent show in tv. Ma lui se ne è rimasto quasi sempre nella sua Londra, tra i banchi della Islamic Primary School che ha fondato alla fine dei Settanta oppure tra gli intellettuali della comunità islamica inglese. Qualche volta, e va bene, è risalito alle cronache: nel 1989, per esempio, quando sembrò che appoggiasse la fatwa dellayatollah Khomeini contro Salman Rushdie e, prima che arrivassero le smentite e le precisazioni, la maggior parte dei musicisti lo mandò a quel paese senza tanti fronzoli. Poi naturalmente l11 settembre ha allargato la frattura tra Cat Stevens e lOccidente consolidando quello stereotipo della popstar integralista che è sembrato diventare quasi insuperabile (e un po pure cercato, diciamolo).
Adesso, forse anche complice una realtà innegabile, le distanze si sono riavvicinate e lartista Cat Stevens, che ha lavorato a questalbum e pure al musical Moonshadow che debutterà a fine anno, indubbiamente ci guadagna in serenità e ispirazione tornando addirittura in tournée dopo 33 anni (le date nei piccoli club saranno presto annunciate). «Ma sfortunatamente sono ancora spesso frainteso - dice -: ho abbracciato un inaspettato cammino spirituale che ha confuso molti. La fine dei conflitti e la pace sono sempre stati il mio obiettivo. È triste che molte persone, compresi alcuni musulmani, abbiano dimenticato che il nome Islam deriva dalla parola pace in arabo».
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