Ferruccio Gattuso
Le dita sanno correre, come sempre, lungo il manico della chitarra. Di accarezzare e tormentare, in una parola stimolare alla vita le sei corde, Chris Rea non ha mai smesso: perché questo rito elegante, che gli viene naturale come respirare, avviene a prescindere dal numero dei riflettori che si ritrova addosso, da quello delle interviste che rilascia, dal tipo di palcoscenici calcati e dalla frequenza con cui il suo nome appare nelle classifiche. Quando si è bluesman - e il chitarrista di Middlesborough, classe 1951, a dispetto del colore della pelle e del luogo di nascita, lo è - la vicinanza alla musica, e allo strumento che si è scelto per farla, prescinde da qualsiasi gratificazione «esterna» o, peggio, commerciale.
Mai stata una superstar, Chris Rea. Nessuno, come accadde invece negli anni Settanta al connazionale e collega Eric Clapton, ha mai scritto su un muro «Chris è Dio». Ma ogni volta che lo si avvista sul palco, ogni volta che si cala sulle spalle la tracolla della chitarra, sembra che Rea le scrolli da tutto il resto, quelle spalle: dalla polvere della fama plastificata, innanzitutto, e poi dalle critiche, non del tutto irragionevoli ma per lui ininfluenti, di non aver mai saputo comporre un brano in grado di segnare unepoca (anche se i dischi venduti nel mondo sono 30 milioni).
Certo, nessun dimentica On the beach, Jospehine, o The blue cafè, ma una hit resta sempre e solo una hit, breve come la sua pronuncia. Oggi, Chris Rea torna in Italia per fare ciò che gli riesce meglio: domenica è atteso al Rolling Stone (ore 21, ingresso 22 euro più prevendita, per informazioni tel. 0584.46.477) per un concerto che si annuncia particolare. La sua ultima fatica è multimediatica, ed è come se Rea, con questo live, segnasse un ritorno a stretto giro di posta sulla piazza milanese: lo scorso ottobre, alla galleria darte Spazio Oikos, si tenne la presentazione del suo monumentale, ultimo progetto, intitolato Blue guitars. Undici cd, in equilibrio tra musica, pittura e narrazione, per soddisfare ogni lato della sua complessa personalità artistica: unidea che ha del faraonico, fatta di 130 canzoni inedite, un dvd e un libro raffigurante i quadri dipinti da Rea negli ultimi anni. Arte dai molteplici livelli di lettura, ma il cui principale scopo, come ha più volte ammesso il chitarrista inglese, è stato quello di ottenere forza, fisica e spirituale, nellaffrontare una lunga malattia dal rischio mortale (al pancreas) che, dal 2000, lo costrinse a ritirarsi dalle scene per un bel po. Al centro di questo mondo colorito di musica e immagini cè sempre lei, la chitarra, evocante agli occhi e alle orecchie quei suoni che spuntano dalle radici di terre bagnate dal dolore, che siano quelle inglesi o quelle del Texas e della Louisiana.
Nel concerto al Rolling Stone, Chris Rea non ha che limbarazzo della scelta, potendo pescare da un repertorio plasmato in trentanni di carriera, e poi da questo suo progetto immenso fatto di country, blues tradizionale, blues texano, soul alla Motown, blues celtico e sfumature jazz. Da almeno tre anni (dallalbum Stony road, che precede Blue guitars) Rea sembra aver accantonato qualsiasi tentazione pop a vantaggio dellamore per il blues: unidea che fece alzare il sopracciglio ai discografici, e difatti per Rea si impose il passaggio alletichetta indipendente Edel, tedesca di Amburgo.
«Ora penso meno al music business - ha confidato con commovente sincerità Rea -. Salute o non salute, poi, ho deciso di fare questo tour.
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