Matteo Sacchi
Palazzoni nella periferia di Zagabria. Una vecchia Volvo posteggiata sotto le piante. Un vecchio professore di storia in pensione posteggiato nel suo appartamento ad aspettare la nera signora, una che arriva sempre e comunque, anche se non si sa quando. Quello che resta della Jugoslavia che fu è tutto fatalisticamente ammassato in questi alveari di cemento, in attesa di un futuro che non c'è o se c'è è per qualcun altro.
Poi però il campanello suona e costringe Karlo Adum ad alzarsi dal suo divano consunto. Il postino ha portato all'anziano insegnante un telegramma. Le parole che contano sono: eredità e Sarajevo. Un misterioso zio ultracentenario è morto, ma quale sia il suo lascito non si può sapere: a meno di non intraprendere un lungo viaggio verso la capitale bosniaca.
E così Karlo Adum decide di fare la valigia, di procurarsi una pistola (non si sa mai) e di mettere di nuovo in movimento la sua macchina svedese che, nel 1975, gli era costata molto più di una bella dacia al mare ed era l'invidia di tutto il comunistissimo corpo insegnante. Poi, imboccata l'autostrada senza mai superare i centodieci all'ora, ché al motore non fa bene, fa rotta verso sud. Inizia così il road novel di Miljenko Jergovic intitolato Freelander (Zandonai, pagg. 188, euro 15, traduzione di Ljiljana Avirovic) e prosegue con una lunga scorribanda automobilistica che accompagna il lettore su rotte balcaniche inusuali. Macerie, ristoranti, autogrill pieni di vacanzieri polacchi, campi minati, cavalli morti, negozi musicali, foreste, cartelloni pubblicitari, cartelli in cirillico cancellati e sostituiti con quelli in caratteri latini e viceversa...
La Volvo macina chilometri e mentre li macina il vecchio professore rivede, come in un sogno, tutto ciò che è accaduto nella polveriera della Mitteleuropa dalla Seconda guerra mondiale, quando la madre un po' zoccola lo vestiva in divisa nera per compiacere gli occupanti tedeschi, ai cecchini della domenica degli anni '90 (quelli che andavano al fronte nei weekend).
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