«Road Show», l’autobiografia afro di un senatore del jazz

«Suonare jazz vuol dire scoprire ogni mattina una nuova alba. Il jazz è la promessa del domani», così racconta il suo amore per la musica Sonny Rollins, il cui sassofono ha arato e dissodato le strade del jazz. A 19 anni incise con Bud Powell, a 20 con Miles Davis e a 26 pubblicò Saxophone Colossus, il disco-manifesto che divenne anche il suo soprannome. Oggi, a 78 anni, il maestro pubblica Road Shows Vol.1, prezioso diario di viaggio a ritroso nella sua storia.
«Ho ritrovato - spiega il musicista - brani inediti come Blossom inciso in Svezia nel 1980, che neppure io ricordavo. Poi ho ripescato classici come Tenor Madness che incisi con John Coltrane nel ’56 e che ho ripescato in una performance dal vivo a Tokyo. E ancora More Than You Know del 1954, con Thelonious Monk, nel cd ripresa da un mio concerto francese due anni fa». Insomma pezzi di storia riproposti in version recenti e dal vivo. «Per questo ho intitolato l’album Road Shows, per ricordare le radici della musica afroamericana, che sono prima di tutto folcloriche e poi diventano una forma d’arte e di intelletto».
Rollins, senatore della comunità jazz, è sempre attivissimo ed è stato di recente anche in Italia. «Il mio segreto? Sto ancora cercando il grande assolo che non ho ancora suonato. Ho sempre composto pensando a una musica senza tempo, e per farlo ho messo insieme gli stili più diversi». Vengono alla mente Coleman Hawkins e Lester Young. «Ma anche Charlie Parker e Dexter Gordon. E soprattutto il magico pianoforte di Fats Waller che mi ha fatto scoprire il blues e il boogie. Infatti cominciai suonando il pianoforte». E poi l’illuminazione... «L’illuminazione si chiama Louis Jordan, un sassofonista pazzo che anticipò le evoluzioni del rock e delle chitarre elettriche. Quello era un sound, impossibile ascoltarlo senza ballare». Solo un mago come Rollins può coniugare Hawkins e Jordan. «Il suono è universale e unisce la poetica e l’energia, le armonie complesse e la semplicità, il colore e il ritmo, e Hordan era imbattibile sul ritmo. Io vengo dalla scuola rhythm and blues».
In Road Shows c’è anche South Pacific, un pezzo inciso l’anno scorso per festeggiare i 50 anni dal suo primo concerto alla Carnegie Hall e che ricrea l’atmosfera di allora. «Sin dall’inizio ho sognato di poter suonare i miei brani mezzo secolo dopo averli composti. Ho scelto brani dal vivo per farli assaporare al mio pubblico, perché l’esecuzione di uno stesso brano è sempre diversa, anche a distanza di un giorno. Il jazz vive di improvvisazione, che è qualcosa di incontrollabile che nasce dall’emozione del momento. È il mistero che tiene viva la musica.

Anche Bach e Beethoven improvvisavano, perché improvvisare è ordine e arte, non caos». Volume 1 presuppone un secondo cd... «Ho raccolto molti brani e ho fondato la mia casa discografica perché non voglio interventi esterni. Ci sarà un seguito, ma ora lavoro al mio nuovo cd».

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