Cultura e Spettacoli

Robert Silverberg quando la fantascienza invade la cronaca

«Affronto anche l’eutanasia Per immaginare il futuro occorre conoscere il presente»

Ci sono scrittori che hanno scelto di raccontare storie di fantascienza per raccontare le meraviglie del futuro, oppure per visitare universi sconosciuti, o per ipotizzare incredibili e terribili sviluppi della scienza. Robert Silverberg, che ha iniziato la carriera di autore di science fiction nel 1955, ha intrapreso vari percorsi di questa narrativa di genere, al fianco di Frederick Pohl, Harlan Ellison, Randall Garrett, Isaac Asimov...
Silverberg ha scritto di tutto: dalle space opera al fantasy, dalle utopie del futuro alle distopie contemporanee, ma in particolare, come ha sottolineato Valerio Evangelisti nell’introduzione alla recente riedizione di Morire dentro (Fazi), «ha fissato soprattutto la sua attenzione sui comportamenti umani. Ha fatto emergere un sentimento poco familiare al genere come la malinconia. Doti suppletive - siano l’invisibilità, la comunicazione telepatica, la preveggenza o altre ancora - sono matrici di solitudine, e dunque di dolore». E così assistiamo, in L’amore al tempo dei morti e in Il libro dei teschi (recentemente riediti sempre da Fazi) allo scontro fra immortalità ed eutanasia, mentre in Monade 116 emerge il tema dell’incomunicabilità e il desiderio di evadere da una società del futuro preconfezionata. E se in Il marchio dell’invisibile il protagonista vive come un dramma il suo non apparire agli altri, in Morire dentro sono le facoltà telepatiche del giovane ebreo David Selig a diventare la sua eterna dannazione.
Abituato ogni giorno a evadere dalla una vita anonima leggendo il pensiero degli altri, David è persino riuscito a trovare un modo per guadagnarsi da vivere onestamente: scrivere tesine di laurea per gli studenti universitari. Grazie alle sue capacità di immedesimazione telepatica riesce infatti a imitarne stili e pensieri e a elaborare con la loro sensibilità dotte dissertazioni su Kafka, Huxley, Omero, Eschilo. Ma un bel giorno il fantastico dono di David comincia a venir meno e la sua esistenza vacilla, aprendogli una porta sull’oblio. «Per scrivere un romanzo - dice Silverberg - è necessario inserire l’elemento del conflitto. Ci sono contrapposizioni di persone e di idee. In caso contrario, viene a mancare la storia stessa. In maniera totalmente separata dalla mia personale visione dell’universo che, forse, assomiglia a quella di Dick e Ballard, cioè una visione piuttosto cupa, per me è fondamentale che l’utopia si trasformi in distopia per poter raccontare il tipo di storia che ai miei lettori piace leggere. In Shakespeare non tutto è rose e fiori. In Macbeth il re viene assassinato. In Danimarca, nell’Amleto, c’è una realtà malata. Non si può farne a meno nella scrittura. Ma è anche la mia visione del mondo, un mondo difficile in cui l’uomo lotta».
Dalle sue parole pare di capire che la sua è una visione pessimista della realtà...
«No, anzi credo di essere fondamentalmente un’ottimista. Ma il mondo è un posto difficile e noi dobbiamo lottare. Credo che sia una lotta necessaria nella quale buona parte del genere umano prevale, se non perde la forza e la convinzione di potercela fare. Ovviamente, alla fine tutti noi soccombiamo, moriamo. Non si scappa, a dispetto di alcune storie che ho scritto. Ma nonostante succedano sempre cose orribili, credo che la nostra lotta sia sempre volta ad affiorare dalle ombre e che il genere umano stia progredendo da un’epoca all’altra».
È facile, oggi, scrivere nuove storie di fantascienza?
«È molto difficile. La tecnologia avanza a un ritmo molto superiore alle mie capacità di apprendimento e oggi è molto difficile mantenersi al passo con tutte le cose nuove e meravigliose che succedono sul piano tecnologico. Io ci provo».
Nell’Amore al tempo dei morti ha affrontato due temi spinosi: l’immortalità e l’eutanasia...
«Nelle due storie che compongono quel volume ho cercato di racchiudere vari messaggi. Nella prima i protagonisti si aggrappano alla vita, lottano per sopravvivere e tornano dal mondo dei morti. Nell’altra i protagonisti non sono costretti a morire, ma lo fanno di loro spontanea volontà. Ciò che cerco di dire di quando in quando nelle mie storie è che la vita è breve e forse potremmo ottenere di più da essa. Sarebbe bellissimo vivere più a lungo. Ma sarebbe davvero positivo e desiderabile? Io non ne sono convinto. Credo che la vita abbia una sua lunghezza naturale. Possiamo cercare di allungarla, ma non possiamo impedire che finisca».
Come ha cominciato la carriera di scrittore?
«Ho iniziato a scrivere storie di fantascienza spinto dal desiderio di scoprire mondi che non avrei mai potuto vedere. Andavo nei musei e vedevo i dinosauri e mi chiedevo come doveva essere stato il loro mondo. Un mondo che non avrei mai potuto visitare, in cui nessuno sarebbe mai andato. Poi mi sono chiesto come sarebbe stato il mondo del futuro, perché nemmeno quello avrei potuto visitare. Il tema dell’esplorazione è sempre stato fondamentale in tutto ciò che ho scritto. Esplorazione del tempo: presente, passato e futuro. Non puoi scrivere del futuro se non conosci qualcosa del passato e, ovviamente, del presente. Mi è così venuto naturale esplorare gli imperi dell’antichità, la preistoria... ma andare anche in altre direzioni raccontando altri mondi, altre epoche, altri pianeti».
Quanto pensa che le grandi riviste di fantascienza abbiano contribuito alla crescita di questo genere narrativo?
«Quando ho iniziato a scrivere, più di 50 anni fa, le riviste erano fondamentali. Allora si pubblicavano pochissimi libri. Le riviste - ce n’erano 10-15 - uscivano ogni mese e assicuravano un dialogo fra gli scrittori. Un autore suggeriva un’idea e poi qualcun altro la sviluppava in maniera diversa qualche mese dopo. Comunicavamo attraverso le riviste ed era molto eccitante. Poi le riviste hanno iniziato a scomparire a causa delle trasformazioni a cui è andato incontro il mondo dell’editoria americana e al loro posto sono subentrate per parecchi anni le antologie in edizione economica. Però non è più la stessa cosa.

Oggi manca un dialogo fra chi scrive di fantascienza».

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