Roberto Abbado: attimi di lirismo e commozione

La perfezione è un concetto astratto e non è cosa di questa terra. Tuttavia ogni tanto qualcuno ti strappa il desiderio di invocarla.
Sinfonico Scala. Sul podio Roberto Abbado. Il direttore che sta diventando un habituée del teatro, forse mostrando il meglio sul versante sinfonico. Nella terna che chiude la stagione avvince il programma. Il Requiem für Mignon di Schumann, praticamente mai eseguito dal vivo (ma esistono alcune incisioni di Abbado zio ); Il Sopravissuto di Varsavia di Schönberg di rara esecuzione; la Sinfonia n.1 di Mahler. Insomma coerenza e preziosità. Cui si aggiunge, nel ruolo di recitante del Sopravissuto, niente meno che Moni Ovadia. Ebbene raramente s’è ascoltato un assieme tanto armonioso e coeso. Tanto nelle corde di direttore e interpreti. A ciascuno il suo talento. E noi, che pure amiamo toto corde e senza riserve l’opposta e più matura arte di Muti (che citiamo fra tutti per la lunga consuetudine), restiamo senza parole davanti a Roberto. I suoi caratteri sono il pudore, l’elegia, il senso del particolare, la padronanza dell’orchestra guidata con rigore, sul filo di acciaio di un ordine interiore che si lascia sedurre da trasgressioni visionarie. I piani sonori mutano di continuo, ma sempre tenuti nei limiti di una poesia un po’ distaccata, tendente all’astrazione. Abbado non grida. Parla e sussurra. Contagia concentrazione, costringe alla partecipazione. Tutto il suo affetto va alle voci che piangono la piccola Mignon. Tutto il suo sdegno al racconto del sopravissuto. La sapienza sinfonica è consegnata a Mahler. Coro, solisti (ottimo Markus Werba) e tessuto musicale di Schumann disegnano un lamento bianco, un sogno, un proposito letterario. La lettura della testimonianza del sopravissuto, in partitura destinata allo Sprechgesang, è drammatizzata da Moni Ovadia. Che scandisce le parole lacerate con leggero accento polacco, urla il delitto dei persecutori nella loro lingua, tace affranto. Per far spazio al coro maschile che intona fremente, in ebraico, la preghiera Sh’mà Israél.
Vengono i brividi. Mahler fiorisce lontano, su un pedale di la tenuto per 61 battute. Poi si lascia guidare da un Lied del ciclo Eines Fahrenden Gesellen che regge tutto il primo movimento e torna nel III e nell’ultimo. In mezzo il gioco, il canto, il pianissimo del cello che disegna con stupore la cantilena Bruder Martin (Fra Martino campanaro).

La complessità strumentale e l’intensità emotiva chiedono al direttore controllo e concentrazione assoluti. Sono tutti eccellenti. Ma Roberto è entusiasmante. Tanto che non pare esistere un meglio. Forse un modo diverso. Noi intanto cogliamo l’attimo.

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