Il signor Coriandoli è un drago nella narrativa per ragazzi. Sul libro giusto ha una sua teoria. La proclama dalle pagine iniziali della Storia infinita di Michael Ende. Il racconto davvero speciale (naturalmente l’unico in circolazione è proprio il fantasy di Ende) è quello che ti accalappia, ti fa diventare protagonista al fianco dell’eroe, ti risucchia nel gorgo e tu scivoli nel suo cuore, come lungo le sinuose superfici di un anello di Moëbius. Non sai più dove finisce lui, e dove cominci tu. Sei dentro. Sei complice, perché solo tu, lettore, permetti all’Impero della fantasia di esistere, di sfuggire al Nulla. È il culmine del coinvolgimento. Tutti gli altri libri regalano, al massimo, l’immedesimazione. Leggi di Tarzan delle scimmie, e voli ululando sulla liana. Ti senti intrappolato nel Nautilus, come il capitano Nemo. O, aggiunge il libraio Coriandoli, mordi la solitudine, come Robinson Crusoe, lo stampo di ogni personaggio-calamita, il fuoriclasse dell’immedesimazione.
Che cosa potevamo chiedere di più al suo autore, il londinese Daniel Defoe (1660-1731), che inventò praticamente dal nulla il moderno romanzo d’avventura? Affarista fallito e giornalista (scriveva da solo le sue riviste, è accreditato come inventore del tabloid) il sessantenne Defoe venne a sapere di un marinaio, Alexander Selkirk, sopravvissuto quattro anni in assoluto abbandono su Juan Fernandez, un’isola al largo del Cile. E Defoe, che non aveva mai scritto opere narrative, sentì profumo di novità e di guadagni editoriali. Era il momento magico per tentare l’impresa.
La gente comune non sapeva che farsene dei poemi raffinati, delle narrazioni sdolcinate e sentimentali dell’epoca. Ci voleva una storia sensazionale (quella del redivivo dall’oceano lo era), e uno scrittore capace di parlare la lingua delle cose e della strada, di sporcarsi le mani con le incombenze della vita pratica, di descrivere le reazioni di un uomo in lotta con i bisogni elementari della sopravvivenza. La sfida: ecco il propellente del romanzo. La sfida immedesima quando è sbilanciata al massimo: Davide contro Golia, la squadra materasso all’assalto del club stellare, il free climber e la roccia nuda, Robinson da una parte, la Natura ostile dall’altra. Dopo le peripezie in mare, Crusoe, superstite al naufragio, approda a un’isola deserta. È una pagina bianca in mano al suo creatore, Defoe. Un uomo-base, una persona media in cui ciascuno può riconoscersi, e per il quale parteggia con il fiato sospeso. Certo, non capita tutti i giorni di naufragare agli sbocchi del grande fiume Orinoco: ma la vita è fatta di prove quotidiane. E lo scrittore aggiunge pennellate al suo personaggio.
Robinson è homo faber. Dalla vanga ricavata da un pezzo dell’albero del ferro, alle stoviglie in terracotta, al pane, l’eremita si fabbrica intorno un mondo di comodità essenziali. A cui aggiunge un feticcio di potere: fedele, anche se inconsapevole, ai principi giusnaturalistici del suo tempo, si autoproclama principe e governatore della «colonia» da lui scoperta. Fabbrica anche uomini. Quando il caso gli affida il buon Venerdì, tribale e cannibale, Robinson lo foggia, servitore sottomesso e devoto fino al sacrificio. Il naufrago è anche mathematicus. Prima di fare, calcola, progetta. Computa i giorni, e l’aritmetica, figlia della ragione civile, gli impedisce di sprofondare nella barbarie, come gli abiti che si cuce addosso lo preservano dalla nudità ferina. È (moderatamente) religiosus. Da bravo puritano, apprezza i doni di Dio, anche se scarsi, nell’ambiente alieno. In una mano tiene la Bibbia, nell’altra, a seconda delle occasioni, una zappa, un fucile, un mucchietto di patetiche monete d’oro.
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