«Rocco mi faceva allenare anche all’ora di pranzo»

All’Inter vinse tutto giocando coi calzettoni arrotolati: «Il gol a Lawrence, uno spagnolo che fa fesso un inglese, fu il massimo»

Tony Damascelli

Gioacchino compie settant’anni. In verità si chiama Joaquim ma Rocco e Facchetti, Mazzola e Moratti lo chiamavano all’italiana.
Peirò Lucas Joaquim, allora, chi ha giocato con le figurine e con le immagini in bianco e nero della tivvù sa benissimo di chi si parla e si racconta. C’era una volta uno spagnolo che aveva gambe secche e piede potente, teneva i calzettoni arrotolati sulle caviglie e il viso era lungo, correva dinoccolato come il Pippo di Walt Disney, a Torino, a Milano, a Roma.
Fu grande ed è ancora grande quando ride aperto al ricordo: «Ho la vetrina del salotto con tutte le memorie del tempo, le magliette dell’Inter, del Toro, della Roma. Ho le repliche della coppa dei campioni e dell’intercontinentale, fotografie e giornali». E c’è anche Roberto, il terzo figlio, dopo Joaquim e Natalie, nato a Roma: «e battezzato in Vaticano».
Un amore bello con l’Italia, incominciato con problemi di digestione: «Quando arrivai dall’Atletico di Madrid al Torino, in cambio di venticinque milioni di pesetas, fui costretto a cambiare le miei abitudini. Nereo Rocco aveva fissato gli allenamenti alle due e mezzo del pomeriggio, per me era l’ora del pranzo. Ero costretto a mangiare alle undici, un dramma per il mio stomaco, non digerivo nulla. A Milano, invece, con Herrera tornai alle abitudini spagnole, allenamento al mattino e pranzo alle due e mezzo. Con i risultati che conoscete».
Con il mago il rapporto fu intenso: «Cinque anni, compresi quelli con la Roma. Ma a Milano c’era anche Luis che per me, non soltanto per me, era il massimo, il capo, l’idolo».
Suarez è quel Luis e se si dice Inter si deve aggiungere dodici di maggio del 1965. Ride di nuovo e dice: «Campeòn. Vado in giro e ancora ricordano quel gol rapinoso a Lawrence contro il Liverpool a San Siro. Uno spagnolo che fa fesso un inglese, che bello. Gli spuntai alle spalle mentre lui palleggiava e fu gol. Nessuna rapina ma un colpo di astuzia».
Ogni tanto una palabra in italiano, la lingua è rimasta nei ricordi di musica: «Mina, Celentano, Milva, che canzoni, che dolcezze, che balli con mia moglie Maria del Carmen. Quando ero a Torino inventarono anche la storia che io sapessi suonare il violino. Mai fatto, mai provato. Scrissero che sapevo «tocar» il piano, effettivamente lo tocco nel senso che metto su la mano ma non so affatto come si suoni. Poi l’altra storia che mio padre fosse un ufficiale della guardia civil, invece lavorava nella polizia. Tante cose di un tempo che è lontano. A Torino avevo la casa in lungo Po Antonelli, a Milano un alloggio in via Copernico e a Roma stavo in via Ugo De Carolis. L’ultima volta che ho visto l’Italia fu nell’Ottantacinque. Poi ho perso i contatti, a parte Suarez e Corso. Mariolino l’ho incontrato quando ero a Malaga, come allenatore. Massimo Moratti? Mai sentito al telefono, mi ricordo quando veniva con noi in giro per l’Europa. Oggi so soltanto che è il presidente. Il calcio spagnolo non è in crisi, chi è arrivato nel vostro campionato dopo di noi, da Martin Vasquez a De la Pena, da Josè Mari a Guardiola o Mendieta, ha trovato forse le stesse difficoltà che incontrai io a Torino, anche se il football è cambiato, se le tecnologie, l’alimentazione, la preparazione sono state rivoluzionate. Ho chiuso da tre anni, dopo l’ultima esperienza con il Real Murcia. Basta, faccio il capo di un’azienda, ci lavorano i figli, Joaquin aveva provato a fare il calciatore ma il cognome era pesante, meglio in ditta come direttore generale di un’azienda di trasporti».


Senti la voce di Maria del Carmen e una musica lontana: «Io canto come un passero che russa o sta male», Joaquim o Gioacchino, comunque fu bello quel viaggio in Italia, tanto tempo fa. Grazie da tutti. Tranne da mister Tommy Lawrence, I presume.

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