Cronaca locale

Quel rudere trasformato in campo rom: "Dateci soldi per tornare in Romania"

A Tor Cervara, periferia Est della Capitale, un vecchio casale a rischio crollo è stato colonizzato da una decina di famiglie rom. All'interno si sono accumulate montagne di immondizia e i residenti denunciano: "Siamo in balìa di degrado e roghi tossici"

Quel rudere trasformato in campo rom: "Dateci soldi per tornare in Romania"

Un rudere diroccato e pericolante è diventato l’approdo di decine di persone. Siamo a Tor Cervara, periferia Est della Capitale, dove scenari di questo genere non sono poi così inconsueti. Sono tante le fabbriche dismesse e gli uffici abbandonati che catalizzano chi è sventurato e alla deriva, chi vuole o è costretto a vivere senza pretese. Ogni angolo di questo quartiere, a cavallo tra il IV e il V municipio, è diventato terra di conquista.

Lo è persino un vecchio casale sventrato dal logorio del tempo. Si dice che il proprietario lo abbia abbandonato da più di trent’anni e che via via si sia trasformato in un porto di mare. Non ci sono foto in bianco e nero a testimoniare l’aspetto che aveva un tempo né qualcuno che abbia sufficiente memoria storica per raccontarlo. "Da quello che mi ricordo è sempre stato occupato", ci dice Antonio D’Alessandro, presidente dell’associazione Insieme per La Rustica. "Gente che viene, gente che va, il ricambio - ci assicura - è continuo". Gli occupanti si avvicendano come le stagioni, appena trovano un riparo più sicuro lasciano il posto a chi viene dopo. Oggi ciò che rimane del rustico è colonizzato da una decina di famiglie rom.

Uomini, donne e bambini che vivono circondati da cataste di immondizia e macerie. In un luogo malsano, pericolante e infestato dai ratti. Quando ci arriviamo è ancora forte l’odore dell’ultimo rogo. Si è sprigionato un paio di settimane fa in quella che è diventata una discarica in piena regola, con montagne di scarti ammassati dagli inquilini. Nessuno vuole indicare il responsabile. L’uomo che abbiamo davanti, un cittadino romeno sulla quarantina, dice di non saperne nulla. Vive al pian terreno del rudere con sua moglie e due figlie ancora minorenni. La più piccola, di appena quattro anni, è stata operata al cuore. Il nostro interlocutore ce ne dà prova sollevandole la maglietta e mostrandoci la vistosa cicatrice che le attraversa il torace.

La decisione di lasciare il vicino campo rom di via di Salone l’ha presa lui, "perché ci confessa - ho una bambina di 17 anni ed avevo paura che qualcuno potesse farle del male". Lavorava da manovale in nero prima del lockdown, adesso sopravvive rovistando nei cassonetti. Lo spazio antistante al rudere è il suo "magazzino". È qui che accantona ferro, materiale di risulta e vecchi elettrodomestici nella speranza di poterli rivendere. "Qui fa schifo è pieno di topi, vogliamo tornare a casa, in Romania", dice chiedendoci di aiutarlo a raccogliere 350 euro per pagarsi le spese del viaggio.

Salendo al piano superiore, invece, incontriamo una famiglia di origini bulgare. Si è sistemata in una casupola, visto che il soffitto dell'edificio è crollato da chissà quanto tempo. È arrivata sei mesi fa da una banlieu parigina. Padre, madre e due figli piccoli. Il più grande ne ha otto e in seguito ad un incidente non riesce più a muovere una gamba. "Avrebbe bisogno di fare fisioterapia e massaggi - ci spiega sua madre - ma non possiamo permettercela". Lasciandoci il rudere alle spalle incontriamo decine di baracche, cani randagi e ancora immondizia. Una donna ci viene incontro sventolando delle ricette mediche. "Mio marito vive attaccato alla bombola di ossigeno, potete fare qualcosa per aiutarci?", dice. "È assurdo che ci siano bambini e disabili costretti a vivere in queste condizioni, per queste persone il Comune dovrebbe trovare delle soluzioni", commenta D’Alessandro.

La sua non è una richiesta di sgombero tout court.

Chiede più attenzioni per questo fazzoletto di periferia costellato da baraccopoli e occupazioni abusive: "A poche centinaia di metri c’è il campo rom di via Salviati, a nemmeno due chilometri c’è quello di via di Salone, più in là il palazzo occupato di via Raffele Costi: tutti, compresa l'amministrazione capitolina, si sono dimenticati di noi".

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