Romain Gary, lo scrittore suicida che rinacque dalle sue ceneri

Torna «L’educazione europea» dell’autore che vinse due volte il premio Goncourt, la seconda sotto falsa identità «svelata» solo dopo la sua morte

«Non era stanco. Non aveva paura. Non aveva sete, né sonno, né fame. Non sentiva niente, non pensava. Se ne stava disteso sulla schiena, lo guardo vuoto, nel freddo, nelle tenebre. Soltanto, a notte inoltrata, pensò che stava morendo. Non sapeva come si muore». Ma Janek ha 14 anni e il padre, prima di morire da eroe delle resistenza polacca, ha fatto in tempo a insegnargli che «nessuna cosa importante muore».
E così, fu quando perse ciò che d'importante aveva avuto o forse quando si accorse di non averlo mai avuto davvero che Romain Gary si sparò un colpo alla testa. Non prima di scrivere lui stesso, con estrema cura, la sceneggiatura della sua morte: la vestaglia rossa comprata e indossata per nascondere meglio la violenza del sangue; il biglietto lasciato: «Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove», perché sarebbe stato il colmo se il fragore di quel colpo di pistola fosse andato a confondersi con il clamore della morte, l’anno precedente, della bellissima e infelicissima Jean Seberg, l’attrice americana che non era mai più riuscita a liberarsi dalla maledizione di Bonjour tristesse, che lui aveva sposato, forse amato, poi lasciata.
Perché se fosse stato il protagonista di un suo romanzo o di un suo film, Romain Gary si sarebbe raccontato più eroico e forse meno sincero di ciò che fu davvero. Invece, combatte nella resistenza francese, certo, ma chissà se convinse mai se stesso di aver scelto De Gaulle piuttosto che Pétain per convinzione morale e politica invece che per semplice, forse estetica casualità. Diventa un eroe di guerra, è indubitabile, chi avrebbe potuto contestare la legion d'onore appuntata sul petto, ma anche nel suo eroismo c’era qualcosa di teatrale, se non di artificioso, un dannunziano gusto del gran gesto: «La verità è che ci sono momenti nella storia, momenti come quello che stiamo vivendo, in cui tutto quel che impedisce all’uomo di abbandonarsi alla disperazione, tutto ciò che gli permette di avere una fede e continuare a vivere, ha bisogno di un nascondiglio, di un rifugio (…). Vorrei che il mio libro fosse uno di questi rifugi e che aprendolo, alla fine della guerra, gli uomini ritrovassero intatti i loro valori e capissero che, se hanno potuto forzarci a vivere come bestie, non hanno potuto costringerci a disperare», scrive in Educazione europea (pag. 271, euro 15), il libro che Sartre, non avendo letto Beppe Fenoglio, giudicherà il migliore sulla resistenza europea e che ora Neri Pozza ha ripubblicato, dopo La promessa dell’alba e La vita davanti a sé.
E come in uno dei suoi romanzi o dei suoi film, dopo gli eroismi della guerra Gary diventa a tal punto un personaggio da restare prigioniero nel suo ruolo: prima ambasciatore di Francia in Bulgaria, in Svizzera, perfino alle Nazioni Unite prima di ridursi a fare il console nella Los Angeles di Hollywood; poi, nel 1956, vince il premio Goncourt con Les racines du ciel, che non sarà il Nobel ma per i francesi è anche qualcosa di più; quindi conosce Jean Seberg, e chissà se mai lui stesso capisce se ama e sposa quella magnifica e malinconica donna americana oppure la triste fanciulla di Bonjour tristesse. Poi, come da copione, arriva il divorzio e intanto le mille altre donne amate, ma quando arrivano gli anni Sessanta lo trovano vecchio, un monumento su cui i giovani della contestazione gettano a malapena uno sguardo per passare oltre, verso nuovi idoli, cosa volete che importi loro che Gary sia uno scrittore di sinistra, magari anche un po’ comunista. Così, mentre la sceneggiatura della sua vita sta per trasformarsi in un viale del tramonto, Gary risale sul palcoscenico, questa volta con una maschera diversa, ma riuscendo lo stesso a strappare l’applauso: con lo pseudonimo di Emile Ajar, facendo credere che costui sia il proprio nipote, scrive La vita davanti a sé, la storia di un ragazzino arabo di una banlieue, e si merita un altro Goncourt: solo dopo la sua morte si scoprirà la vera identità di Emile Ajar, intanto Gary ha recitato da istrione un altro dei suoi ruoli, quello dello scrittore che rinasce dalle sue ceneri, mentre tutti, pubblico, critica, amici, nemici, lo considerano già morto.
Ma ormai è troppo tardi. Gli applausi del pubblico non bastano più. L'attore è stanco delle sue maschere.

E forse, quel 3 dicembre 1980, prima di premere il grilletto e farsi esplodere il cervello, si sarà ripetuto ciò che il ragazzo Janek aveva ascoltato, nel gelo della foresta: «Non esiste un’arte disperata: la disperazione è solo mancanza di talento».

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