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Romano Prodi, simbolo della vecchia politica che spazza i guai col sorriso

Erede di una dinastia che, grazie alla Chiesa, si è intrufolata nei gangli del potere, colto e perfido, il professore finge stoltezza per cavarsi dai guai e dai misteri. Come quelli sulla sua carriera, sul caso Moro e sui legami col Kgb

Romano Prodi, simbolo della vecchia politica che spazza i guai col sorriso

Pur proclamandosi rottamatore della vecchia politica, Matteo Renzi sta risuscitando Romano Prodi che ne è la quintessenza. Dopo la batosta alle amministrative, il professore di Bologna è l'uomo del giorno. È lui che la sinistra disperata vuole contrapporre al petulante fiorentino per farlo fuori. Vero che in agosto compie 78 anni, più adatti a un soggiorno alle terme che a calzare l'elmetto. Ma si sa che per gli anzianotti questi refoli di vita sono meglio di un'immersione nella fontana della giovinezza.

Basta guardarlo in Tv per capire quanto è ringalluzzito. Sguardo duro, labbra serrate e frasi secche: «Renzi vuole che sposti la tenda più in là? La mia è molto leggera e l'ho già messa nello zaino». Il classico modo cattolico-scoutista di mandare all'inferno senza dirlo. Per l'ex premier è giunta l'ora di vendicare l'affronto del 19 aprile 2013, quando Renzi gli fece mancare i voti per eleggerlo al Quirinale. Sintetico come Cesare sul Rubicone, ha disegnato la sua strategia in tre mosse. Molla Matteo per unirsi ai fuorusciti di Pierluigi Bersani e alle sinistre errabonde di Pisapia, Fratoianni & co. Se poi, come sembra, un'altra fronda guidata da Dario Franceschini spappolerà il renzismo dall'interno, si darà da fare per federare tutti. Infine, rottamerà il rottamatore per condannarlo all'oblio.

Seppure perfido, Romano è degnissima persona. Appartiene a una delle tre grandi famiglie provinciali che hanno malridotto l'Italia dopo il miracolo economico: gli emiliani Prodi, i marsicani Letta, gli avellinesi De Mita. Nuclei numerosi, colti e legati alla chiesa che si è presa la briga, in particolare con i Prodi e i De Mita, di farne dei cacicchi della Dc, partito di riferimento.

Dei Prodi si ha traccia nei registri parrocchiali di Scandiano (Reggio Emilia) fin dal Trecento. Il primo avo certo, Tognino da Prodi, è vissuto tra XV e XVI secolo. I nostri Prodi, figli di un ingegnere di origine contadina, sono invece nati tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso. Romano è il penultimo di una nidiata di nove fratelli, due femmine e sette maschi. Tutti si sono laureati e cinque sono diventati professori universitari. Poi, la chiesa nelle sue varie fattezze, vescovi, parroci, monsignori, li ha spinti nei gangli vitali della società italiana del miracolo economico per irrorarne di cattolicesimo l'irruente sviluppo tra happy night alla Bussola e fumi sessantottini.

Ripercorrere il cursus di Romano è quasi un pleonasmo tanto è noto. Docente di economia a 23 anni, a 30 era editorialista principe del Corsera, a 37 ministro dell'Industria. Poi, per tutti gli anni Ottanta, fu il patron dell'Iri. Nei successivi venti, è stato l'antagonista di sinistra del berlusconismo che batté due volte, sottraendo a Silvio Palazzo Chigi nel 1966 e nel 2006. È sotto la sua guida che l'Italia è entrata nella moneta unica al cambio suicida generò in una notte un'inflazione interna del 100 per 100 di 1936,37 lire per un solo pidocchiosissimo euro. Per godere il privilegio, dovemmo sborsare una tassa una tantum con la promessa che sarebbe stata restituita e che mai lo fu.

Famoso in tutta l'Ue per la prodezza nomen omen , Prodi ne divenne il capo nel 2001, come presidente della Commissione. Il Cav, che era premier, lo appoggiò e non ne ebbe mai gratitudine. I giornali italiani sciolsero peana. La stampa anglosassone lo fece invece a fette. «Un dilettante superprotetto catapultato su una poltrona troppo importante», scrisse il Financial Times. Il Times rincarò: «Un personaggio deriso in quasi tutto il vecchio continente ma che resta motivo d'orgoglio per gli italiani». Fu sotto la sua guida che l'Ue si gonfiò a dismisura, passando da 10 a 25 stati. Da allora, l'Unione è sempre in procinto di scoppiare.

Nel 2008, con la fine del suo secondo gabinetto, Romano è uscito dal grande giro e si è dedicato a Nomisma, la sua ricca società di consulenza. Negli ultimi tempi, ha piacevolmente sorpreso almeno me per avere rivisto vecchie posizioni. Oggi, è critico dell'Ue per l'impotenza. Si distanzia dalla globalizzazione, di cui è stato fan, perché ha creato enormi squilibri: la finanza trionfa, il lavoro scarseggia. Giudica incontrollata l'immigrazione, rimpiange Gheddafi che ci dava una mano a contenerla e sferza il governo dicendo che sui barconi facciamo la figura di un paese che «non conta nulla». Insomma, fa mea culpa. In ciò, superando l'eterno rivale, Silvio Berlusconi, che non rinnega nessuna delle sue cantonate.

Detto questo, Prodi e il suo passato sono avvolti da un alone di mistero che tutto lo circonfulge. Mi sono sempre chiesto se ci sia veramente qualcuno nei meandri dei mille poteri politici, burocratici, polizieschi, italici ed extra che sappia ogni cosa di quest'uomo due volte premier. Non fosse che per tranquillizzarci. Prodi incarna infatti il seguente rebus: com'è arrivato ai vertici?

Tutti sanno della seduta spiritica del 2 aprile del 1978 nelle campagne di Bologna, nel corso della quale Prodi sostiene di avere appreso il luogo in cui il rapito, Aldo Moro, era custodito dalle Brigate rosse. Spostandosi medianicamente sul tavolino, la tazzina di caffè batté «Gradoli». Ed esattamente in Via Gradoli a Roma era prigioniero Moro. Nonostante Prodi si fosse precipitato a riferire il nascondiglio alla autorità, per una serie di disguidi si arrivò tardi e il prigioniero fu ucciso settimane dopo. La domanda è: possibile che l'indicazione così precisa di Gradoli sia venuta da un medium? Non ci crede nessuno. Prodi ha saputo di Gradoli da gente in carne e ossa vicina alle Br. Complici dell'università di Bologna dove insegnava? Servizi segreti esteri? Mistero. Sta di fatto che da 40 anni, insiste sulla versione farlocca della seduta spiritica e non c'è autorità che gli abbia cavato il cece di bocca. Un premier, assumendo la carica, giura fedeltà allo Stato e lealtà al popolo. È fedele e leale chi ha la chiave del massimo trauma nazionale del dopoguerra e non lo rivela?

Da allora, Prodi ha una fama sulfurea. Nel 2005, saltò fuori che era un agente sovietico. I dossier dell'Urss, crollata 15 anni prima, erano stati desigillati. Tra i reperti, la testimonianza di un'ex spia, Alexander Litvinenko (poi ucciso a Londra col polonio), che avrebbe mosso pesanti accuse su di lui, dicendo: «Il nostro agente in Italia era Prodi». Un collega dell'ex spia, Oleg Gordievsky, in un'intervista al senatore e giornalista, Paolo Guzzanti, già presidente della commissione Mitrokhin, aggiunse particolari mai verificati: «Tra il 1981 e 1982, Prodi era popolarissimo nel Kgb. Lo trovavano in sintonia e dalla parte dell'Unione sovietica».

Rivelazioni mai accertate che avrebbero abbattuto un toro. Romano si limitò invece a uno di quei suoi sorrisi da ebete che gli fanno obiettivamente torto e la cosa finì nel nulla. L'ultima e chiudo. Da anni, Prodi è un super consulente di Dagong, l'agenzia di rating cinese, sul modello di Moody's, Fitch e S&P. Nel 2011, appena insediato il governo di Mario Monti, Dagong abbassò l'affidabilità del debito italiano, mettendo il carico da undici sui nostri guai. Si immaginò lo zampino di Prodi nella bocciatura. In altri tempi, si sarebbe evocato l'alto tradimento. Ma a lui è bastato un altro sorrisino da tonto per disperdere ogni sospetto.

E ora scende di nuovo in pista.

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