L'arte del romanzo storico

La scrittrice premio Strega racconta il libro sulla Bricci, geniale romana del Seicento.

L'arte del romanzo storico

L'architettrice (Einaudi, pagg. 558, euro 22) di Melania G. Mazzucco è un romanzo storico con magistrali scene di arte, di guerra e di amore (negato) ambientate nella Roma capitale del Barocco. La protagonista, l'architettrice, è Plautilla Bricci (1616-1705). Il padre è un talento dispersivo: pittore, scrittore, attore, dilettante di scienza. Plautilla, come tante donne intorno a lei, sembra condannata a una vita invisibile ma riceve una formazione da pittrice. È brava. Si fa strada in mezzo a mille difficoltà. Ama, ricambiata, l'abate Elpidio Benedetti, un servitore del cardinale Mazzarino. È una relazione impossibile che trova compimento ideale nella villa costruita da Plautilla per Elpidio: Villa Benedetti, nota a Roma come il Vascello, a causa della sua originale forma. Elpidio, per non correre rischi, farà scrivere sulle guide che la villa è frutto dell'ingegno di Basilio Bricci, fratello di Plautilla. Il filone narrativo principale si chiude con alcuni magnifici capitoli sulla peste del 1656, che cambia tutto. Come? Lo dovete scoprire. Il romanzo è stato pubblicato prima della pandemia di Covid ma la suggestione è inevitabile e istruttiva. C'è poi un secondo filone narrativo, ambientato nel Risorgimento. Villa Benedetti, nel 1849, si trova sulla linea del fronte durante l'assedio francese alla Repubblica romana. È quasi rasa al suolo dalle cannonate straniere. Nell'edificio, assieme ad altri giovani idealisti, combatte il milanese Leone Paladini. L'ultimo ordine, prima di ritirarsi, è di far saltare quel poco che resta dell'edificio. Anche in questo caso vi lasciamo scoprire il finale.

Il 28 agosto, la scrittrice sarà a Firenze in occasione del festival «La città dei lettori». Qui Mazzucco, premio Strega per Vita (Einaudi, 2003), presenterà L'architettrice insieme con Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci. Nell'attesa, via Skype, chiediamo a Melania Mazzucco di raccontarci come si scrive un romanzo di questo spessore letterario e storico (nomi, fatti, date e luoghi sono reali).

Come ha scoperto Plautilla Bricci?

«Mentre cercavo altro. Stavo preparando una serie di lezioni sulle pittrici disperse e consultavo repertori antichi, del XVII e XVIII secolo. Mi sono imbattuta in un paio di righe. Dicevano soltanto: Plautilla di casa Bricci, romana. Non si diceva quasi nulla delle sue opere, si accennava a un palazzetto per la casa Benedetti e una cappella per San Luigi dei Francesi».

Era sconosciuta?

«Se ne era perso il ricordo. È tra le poche donne a figurare, con una breve voce, nel Dizionario Biografico degli Italiani. Inoltre, ha costruito una cappella in una delle chiese più famose del mondo, San Luigi dei Francesi a Roma. Lì appare il suo nome. Ma si entra a San Luigi per Caravaggio, e l'occhio raramente cade sulla firma di Plautilla».

Come si documenta? Anche dal punto di vista linguistico, si va da «architettrice» a «sninfia»...

«Ho consultato gli archivi, a partire dal 2000. Nel corso degli anni sono usciti alcuni studi, in particolare sul Vascello. Carla Benocci ha pubblicato il contratto tra il committente della villa e l'architetto, Plautilla. Villa del Vascello, come è nota a Roma, era dunque Villa Benedetti. Poi ho letto carte ufficiali riguardanti la famiglia Bricci, atti giudiziari, cronache e diari romani. Tutte le parole seicentesche vengono da lì. Pochi hanno idea del numero di diari scritti dai romani in quarantena durante la peste del 1656».

Allora i diari della quarantena non sono una novità?

«Tutt'altro. I romani chiusi in casa, palazzo per palazzo, hanno registrato tutti gli avvenimenti, da quelli personali a quelli storici, passando per le vicende dei vicini».

E quindi...

«Ho trovato il diario dell'avvocato Carlo Cartari, che descrive come la peste si avvicina all'isolato in cui vive. Cartari abitavo sullo stesso pianerottolo dei Bricci».

Che tipo di artista era Plautilla?

«Non esiste un vero catalogo della sua produzione. La sua opera giovanile è una icona ispirata alla pittura antica. Già questo ci dice che i Bricci erano inseriti almeno nel mercato delle immagini devozionali, non il più ricco ma florido. Non a caso la Madonna con bambino è a Santa Maria in Montesanto, Piazza del Popolo, a Roma. Pochi sanno che è sua, anche perché è firmata sul retro, ma quanti pellegrini l'hanno guardata...».

Poi c'è un buco nella biografia...

«Plautilla sparisce per riapparire negli anni Cinquanta, pare vicina a Pietro da Cortona. Negli anni Sessanta si avvicina alla maniera più austera di Andrea Sacchi. Non è un'artista particolarmente originale ma possiede buona tecnica e soprattutto una grande sensibilità, come dimostrano i volti della Nascita di san Giovanni Battista. Negli stendardi di Poggio Mirteto, specie nella lunetta, si misura con un nuovo tipo di iconografia. Non a caso si firma: Plautilla invenit, che potremmo tradurre ideato da Plautilla».

Ha vissuto in un'epoca in cui Roma ha cambiato volto.

«Era il secolo d'oro dell'architettura romana. C'erano giganti come il Bernini o il Borromini. Era all'altezza. Riuscì a realizzare una Villa di grande impatto scenografico, con un senso dello spazio potente e una grande originalità nel disegno. Era attenta alle spese. Solo nella cappella barocca di San Luigi utilizza materiali pregiati, marmi e stucchi di grande valore. I suoi progetti erano di qualità».

Plautilla era una donna invisibile, nonostante tutto?

«A Venezia, che era relativamente più aperta, si davano tre possibilità: maritar o monacar o diventare una prostituta. Roma era peggio. La corte era maschile, le cerimonie escludevano le donne, al punto che si dovette inventare un protocollo nuovo per ricevere la regina Cristina di Svezia. Le donne romane erano invisibili ma talvolta, nell'invisibilità, trovavano la loro strada. La vita delle donne comuni, nel romanzo, è raffigurata in Albina, la sorella di Plautilla, maritata con un artista, minore certo, ma relativamente istruito: distrutta dai parti e dalla morte dei figli. Suor Eufrasia, la sorella del protagonista maschile, l'abate Elpidio, era stata rinchiusa in un monastero severo, ove si predicava il rompere la volontà della novizia, negandole ciò che amava. Eppure Eufrasia diventa pittrice, certo, solo per le monache. Però, in fondo, con i suoi quadri ne illuminava il cammino spirituale».

Perché Plautilla ha avuto una sorte in parte diversa?

«La sua vita, in un certo senso, fu beffarda. Ufficialmente non esisteva, nonostante facesse parte dell'Accademia, e dunque fosse una professionista. Non sappiamo se avesse la possibilità di partecipare alle riunioni con i colleghi. I documenti nominano il fratello Basilio ma non lei. Poi però avviene un fatto enorme: l'abate Elpidio la prende come pittrice di casa e poi architettrice. È un gesto inedito, del quale poi Elpidio si pente, nascondendo la vera paternità di Villa Benedetti. In Plautilla rimase frustrato un desiderio potente di gloria e riconoscimento».

La funzione eternatrice dell'arte è un tema forte. Eppure, durante la difesa della Repubblica di Roma, la Villa è devastata dalle cannonate. L'eternità è solo illusione? Forse noi tutti ci illudiamo di lasciare qualcosa ma...

«La letteratura è una passeggiata fra le rovine, si parte sempre dal cercare di ridare vita a ciò che si è perduto. Ridare forma alle macerie e alle vite dimenticate, che hanno lasciato poche tracce, per farle restare il tempo che sarà possibile. Questo è lo scopo dei miei libri. Certo, anche la letteratura può essere inghiottita: si lavora affrontando il buio. Il Briccio, il padre di Plautilla era uno scrittore moderno ed efficace: ma nessuno si ricorda di lui».

Tra i personaggi, spicca Mazzarino, più popolano che aristocratico, attento all'immagine: un nuovo tipo di uomo di potere?

«Noi tutti abbiamo un'immagine di Mazzarino che discende dai romanzi di Dumas: cardinale dalla fama sinistra. Visto dai francesi: era un italiano di sangue plebeo, adottato da Richelieu, compare della regina, probabilmente padre di Luigi XIV per il quale creò il potere assoluto. Visto dagli italiani: partiva svantaggiato, come Elpidio. Suo padre era un baro e un assassino. Mazzarino capiva la politica. Da un certo punto in avanti, non ha più bisogno di protettori e questo non viene perdonato mai. Neppure ora. Era considerato un nemico da tutti ma con garbo sapeva anche farsi amare. La sua vita finisce nel segno dell'ingratitudine più nera. Le sue nipoti, che aveva favorito in tutto, lo demoliscono negli scritti. Il fedele Elpidio però verrà ricompensato con il titolo di agente del re di Francia, una carica importante».

Di fronte al tonfo della famiglia Barberini, padrona spodestata di Roma, dileggiata in piazza dai suoi ex servitori, Plautilla pensa: «Siamo un popolo di ingrati». Lo siamo ancora?

«In effetti vengono in mente anche fatti più vicini a noi. Mi ha colpito una cosa: cade il potente ma cadono anche i suoi portaborse. Tranne i più abili a scendere dal carro del vincitore quando ormai sta per schiantarsi. Anche gli artisti erano coinvolti dal successo e dalla rovina dei loro protettori. Giò Romanelli rimase sempre legato ai Barberini, e finì in disparte. Bernini seppe sempre interpretare la politica. Si riprese dalle battute d'arresto, e dopo la fine dei Barberini entrò nelle grazie dei successori che gli fecero rifare Roma».

Nella sezione ottocentesca, si parla invece di «Risorgimento tradito». In che senso?

«Risorgimento tradito perché, se leggiamo i moltissimi memoriali lasciati dai patrioti, c'era una forte carica ideale: repubblica democratica, stato sociale, libertà religiosa. Questo era il Risorgimento, anche se ora si tende a raccontare tutto quanto come se fosse una questione di confini. Lo slancio fu lasciato cadere. Alcuni, come Leone Paladini, il protagonista di questa sezione, restarono dei Don Chisciotte. Altri, dismessi i sogni, si adattarono e diventarono senatori o ministri».

Nella parte dedicata alla peste è inevitabile pensare al Covid...

«L'analogia si sente, forte. Comune è il senso di impotenza: non sai cosa potrà fare per te la scienza in quel momento. Il Seicento è il secolo di Galileo, della fiducia nella scienza: e tale fiducia si rivela inutile. I romani prendevano nota delle varie teorie, anche contraddittorie, dei medici. Ma la cura non c'era. Il popolo, il più colpito, si abbandonava al complottismo o al negazionismo: nessuno voleva credere all'epidemia, inizialmente. Ci furono anche rivolte sconsiderate, quasi per il gusto di sfidare la legge. Il popolo romano è sempre stato anarchico ma in quel caso, come nel nostro, alla fine ci fu notevole obbedienza. Vale anche per il coronavirus. A Roma, nei giorni del lockdown non c'era nessuno in giro.

Poi c'è un altro tema, colto con lucidità anche nel Seicento: dove c'è l'emergenza finisce il dominio della libertà. Sto citando, a memoria ma quasi alla lettera, il passo di un diario della peste scritto da un cittadino romano».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica