
Leggendo il romanzo di Piero Salabè Mortacci mia (La Nave di Teseo, pagg. 380, euro 20) mi sono tornate in mente le parole risentite di Melania Mazzucco quando lo scorso anno, rispondendo a chi criticava la dozzina dello Strega, disse pressappoco che era ora di ripensare il romanzo in funzione dei tempi, che ciò che trent'anni fa veniva designato con questo nome oggi può non esserlo più, mentre forse lo hanno acquistato forme, linguaggi, costruzioni che tempo addietro non avrebbero ottenuto tale dignità. Parole che, in assenza di un vero modello, alto e non equivocabile, potevano rischiare di coprire prodotti scadenti e scarsità di idee. Io però pensai subito che con quell'idea si sarebbero dovuti fare i conti.
Lo dico sollecitato da questo libro davvero bello, una specie di «Ricerca del Romanzo Perduto», una ricognizione intorno a una materia - quella, appunto, del romanzo - che, in un contesto come il nostro, rischia di disintegrarsi a causa di una mutazione radicale nel rapporto spazio-tempo. Non esistono più fatti (o catene di fatti) circoscritti in un lasso definito di tempo e in una ragionevole porzione dello spazio. Se la retorica corrente usa di continuo parole come «racconto» e «narrazione», tutti noi ci rendiamo conto (basta pensare alla storia degli ultimi cinque anni) quanto l'atto di raccontare sfiori ormai l'impossibilità, quando un evento di un istante può percorrere simultaneamente l'intero pianeta e una memoria artificiale rendere obsoleta quella umana, che è lacunosa come lo è per sua natura il romanzo, un edificio precario che nell'instabilità ha la sua forza. Ma qui sta l'essenza del Romanzo: in una memoria instabile, cangiante che, dalla cantina o dalla soffitta, ancora macina il suo balbettio.
Mortacci mia mette in fila tutti i materiali classici del romanzo. Anzitutto il rapporto padri-figli: una disperata, corale (a due, ma due è già coro) ricerca di un padre che si è perso non si sa se nei meandri sotterranei di un ospedale, il Policlinico di Roma, chiuso per fatiscenza, oppure in quelli di una memoria non meno lacerata. Una specie di oscilloscopio di Schroedinger sta al centro della scrittura di Salabè: papà è morto, ma non è morto.
Lui era un medico, un grande medico, troppo occupato a cercare la guarigione dei suoi pazienti per fare carriera, per frequentare i salotti giusti, per coltivare la pianticella del prestigio e del riconoscimento e per occuparsi dei propri figli. Papà è morto stimato ma non riconosciuto, è storia di molti. Una libera docenza (che non si nega nemmeno agli asini), pochi e nulli gli attestati, i titoli. È stato un papà difficile non meno per i figli che per sé stesso. E non ha imparato a mettere le cose al loro posto: insomma è un padre nella sua natura profonda, insostituibile perché incompleto, perché (come tutti i padri) ha lasciato a metà la sua eredità, il suo messaggio per chi resta.
Quattro, i figli. Due, i maggiori, ben sistemati, vogliono vendere la casa di famiglia, liquidare la memoria di una famiglia borghese in estinzione. Ma ci sono i figli minori, i narratori della storia, che sanno ciò che i maggiori non sanno, e cioè che l'estinzione, la sparizione, è un terreno che si esplora e, esplorandolo, si abita, per mesi, anni. La forza sempiterna del romanzo sta nella sua capacità di persuadere chi legge che questo luogo, dove espatriano tutti gli estinti, ha un indirizzo, si trova a Roma, nel tal posto, in uno spazio recintato, noto più alle talpe che agli uomini, dove la ricerca può continuare senza condizionamenti perché ignorata. Per seguir virtute e canoscenza occorre essere morti, o quantomeno darsi per tali.
La metafora è fin troppo evidente. Anche la Letteratura è ricerca, anche la Letteratura anela alla libertà assoluta, a uno stato di morte in vita, all'isolamento, all'assenza da tutto (antologie, premi, profili storici), a una verginità da conservare al netto e prima dei compromessi (che ci saranno).
E questo perché? Perché il padre che cerchiamo nel labirinto dei simboli non è, a sua volta, un simbolo, ma un volto reale. I sei personaggi di Pirandello cercano non una commedia, ma un autore, anzi un Autore. Del resto, lo sappiamo bene: la Letteratura o parla di Dio o fa il verso ai sociologi, o cerca l'assoluto o discetta di questo e di quello: indipendentemente dalle convinzioni di chi scrive.
Mortacci mia mi ha fatto venire alla mente uno dei più grandi romanzi del '900, oggi un po' trascurato: Herzog, il capolavoro di Saul Bellow, dove un uomo un tempo prestigioso e poi scaricato da tutti (carriera, lavoro, moglie) si ritira IN una vecchia casa diroccata e comincia a scrivere lettere immaginarie a personaggi vivi e morti, esponendo il proprio punto di vista, non rinunciando - finché è possibile - a dialogare con tutto e tutti, anche a costo di diventare o di esser ritenuto matto («Se sono matto, per me va benissimo» è il memorabile incipit del romanzo). Matto o, come in Mortacci mia, inesistente.
Dall'inizio del nuovo secolo ci imbattiamo in narrazioni complesse che occupano l'area del romanzo senza essere romanzi. C'è da chiedersi se film come Matrix, The Square o Parasite non portino avanti l'invenzione romanzesca là dove la scrittura tradizionale non può giungere. Penso ai grandi romanzi dei fratelli Singer e a serie Netflix come Shtisel o Unhortodox che ne sono la continuazione su un piano non percorribile dal romanzo vero e proprio, il cui limite è secondo me quello di essere cresciuto parallelamente a società e mondi nei quali, in un modo o nell'altro, vigeva un'idea di «progresso».
I romanzi devono andare avanti in un mondo che va avanti. Dopo Dostoevskij e Tolstoj non potevano che giungere Joyce e Proust, il romanzo conosceva una o più metamorfosi ma la sua centralità si conservava perché a conservarla era quella stessa idea di progresso che ne modificava l'aspetto e la leggibilità. Il progresso conserva ciò che cambia.
Ma la nostra epoca si è lasciato alle spalle il mito del progresso. L'orologio del cinema può andare indifferentemente indietro e avanti, può sperimentare modi di raccontare il mondo del tutto impossibili a un romanzo (penso a Mulholland Drive o perfino a Inception), ma anche a certi modi tradizionali, quasi ingenui, che una serie tv può recuperare, facendo per così dire un passo indietro rispetto ai suoi riferimenti letterari. Cinema e serie tv possono permettersi tutte queste cose, e devono farlo.
Questo non vuol dire che il Romanzo sia finito, tutt'altro. Perché il Romanzo (come il Teatro) ha una vocazione diversa, per ora non sostituibile: quella di poter bucare, tramite la parola, la cupola della rappresentazione e dell'intrattenimento fino a mostrare, tangibilmente, la sua materia nuda, a-simbolica, fino a una consegna reale, come «una stretta di mano» (Paul Celan). Un romanzo mi deve consegnare Dio, o la sua definitiva assenza: un compito così terribile e impossibile da implicare un abisso di precarietà, di fragilità, forse di pazzia.
E se le grandi narrazioni sono state superate da forme più adeguate al modo istantaneo e caotico di conoscere, tipico del nostro tempo, resta, come nel romanzo di Salabè, lo spazio di un'interrogazione senza fine.
Disteso sul vecchio tappeto bucato della vecchia casa in vendita, il protagonista non si stanca di spingere l'immaginazione oltre i recinti di ciò che è corretto, ammissibile, decoroso, alla ricerca di quel padre o Padre di cui - oltre ogni patriarcato, oltre ogni modello capitalistico, oltre ogni logica patrimoniale - noi abbiamo un fottutissimo bisogno.