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Ronaldinho e Ibra cartoons del gol

Standing ovation per il sudamericano al Bernabeu: prima di lui solo Maradona. Lo juventino chiamato «Sfibrahimovic»

Tony Damascelli

Purtroppo quei due non sono di Pinerolo e nemmeno di Casamicciola. Sarebbe stato comodo alla nostra Patria pallonara tra qualche mese in Germania. Ma uno viene dal nord, alla voce Svezia, direi per caso avendo radici slave, nella famiglia e nello spirito; l’altro è nato nel paese del caffè, del samba, delle favelas, del fucibòl e di altre cose belle e conturbanti. Dunque Ibrahimovic e Ronaldinho hanno riempito con gesti e gesta il sabato sera del calcio europeo. Hanno segnato gol feroci e spettacolari, prodotti del loro repertorio tecnico e fisico, l’astuzia e lo stile dello juventino, giraffa che si trasforma in puma, la velocità e la classe del catalano. Roger Rabbit che diventa Nembo Kid.
Ronaldo de Assis Moreira, ridetto, secondo usi e costumi brasileri «Ronaldinho», riceverà il Pallone d’oro dopo averne confezionati mille, sul campo, in Brasile, Francia, Spagna e resto del mondo. Il diminutivo del suo cognome non ha più ragion d’essere se non fosse ancora in circolazione il maggiore, al secolo Ronaldo, in verità ridicolizzato dal collega al Bernabeu di sabato sera. Al termine l’intero Bernabeu ha tributato una standing ovation a Roger Rabbit: era capitato solo per Maradona.
Zlatan Ibrahimovic si mette in coda per altri premi: gioca con la perfidia che fa tornare in mente, ai bianconeri e agli avversari, Enrique Omar Sivori, si è adattato in fretta al nostro calcio anche se qualche critico non ha ancora capito che tipo sia, quanto valga davvero anche per il gioco della squadra e lo abbia addirittura definito «Sfibrahimovic» perché svuoterebbe di energie e idee i sodali. Il suo «mamma mia» (come il tormentone musicale dei connazionali, gli Abba) con il quale ha accompagnato la festa del gol alla Roma gli ha restituito una dimensione più fresca di quella acida che si porta appresso per certe reazioni non sempre corrette.
Ronaldinho e Ibrahimovic appartengono al calcio che fu e sta ritornando: la fantasia al potere, la potenza e la prepotenza, il movimento imprevedibile, il colpo di tacco e il tunnel, tutto quello che era stato messo in soffitta dai filosofi del muscolo, del quattrotretré e dell’intensità. In un’intervista rilasciata in settimana Arrigo Sacchi, tra i maggiori depositari di questa teoria, ha detto per l’appunto che: «... per noi italianni la fantasia rappresenta un alibi, un rifugio... »; e ancora: «... la fantasia non si alleva, il cervello sì... »; e per concludere «... il calcio moderno va in questa direzione».
Ecco il problema: la direzione. La fantasia contro il cervello, il rifugio contro la libertà, non dico l’anarchia ma la possibilità di fare quello che si ha voglia ed estro di fare. Allenare o allevare Ibrahimovic o Ronaldinho non rappresenta un gran lavoro, «chi sa sa e chi non sa non saprà mai», disse un giorno Michel Platini, parlando del tramonto dei campioni che restano maestri.
Ronaldinho ha venticinque anni, Ibrahimovic ventiquattro, hanno dunque margini, non soltanto anagrafici, per migliorare, prescindendo da Rijkaard o Capello, Parreira o Lagerbeck, nel senso degli allenatori che li guidano nei club o in nazionale. Chi ama il football vorrebbe essere al posto di questi quattro in panchina , soltanto per il piacere di vedere dal vivo e non virtualmente i pupazzi della play station. Se fossi Roman Abramovich proverei a comprarli tutti e due stasera stessa, per farli giocare anche sui prati di Hyde park. Purtroppo non sono russo e sui rubli meglio sorvolare.

Per fortuna di Ibrahimovic e di Ronaldinho.

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