Ronaldo: «Mi ritiro»

Dentone e pancione. Lo ricorderemo così? Come si è presentato ieri alle tv brasiliane, avvolto dai suoi 34 anni, padre di due bambini che gli stavano teneramente accanto, con la lacrima sul viso, la maglia a strisce orizzontali che ne allargavano la figura, parole che talvolta stentavano e qualche piccolo-grande segreto da rivelare. No, sarebbe ingiusto per lui, non a caso ridefinito Fenomeno, per il calcio, per i sogni sui quali ha fatto volare chi ama il pallone. Ronaldo, con tutto il seguito del suo nome che è sempre stato un inutile orpello, ha lasciato il calcio.
Ma stavolta il verbo non racchiude realmente il fatto. Ronaldo è spirato dal calcio: spirato nella sua unicità, per tutto quanto ha rappresentato, presentato, dimostrato e segnato. Segnato, nel nome dei gol che sono stati 442. E in quell’altro che è molto più ampio. Pensavamo agli eroi del pallone che si chiamavano Pelè e Maradona, erano il simbolo del giocare tradizionale, bellezza e arte, colpi raffinati e gol intrisi di fantasia, sobrietà ed esagerazione. Poi è arrivato lui e ci ha immersi nel futuro, simbolo quasi spaziale in un mondo ancora rinascimentale. Oggi se ne va lui, ma ci lascia Messi: ideale continuare di un marketing calcistico. Così come Maradona lo è stato di Pelè. La storia di ripete, giocando sempre a ping pong tra Brasile e Argentina. Non è casuale.
Grazie a Ronaldo abbiamo capito che un eroe del pallone poteva filare come una saetta, andare a velocità supersonica, cosce da bue ma tecnica dei grandi sudamericani: era un atleta più che un giocoliere. Nascondeva il pallone a tutti ed anche ai portieri: troppo veloce per intuirne il movimento. Lo inseguivano gli occhi dalla tribune. Lo tampinavano gli avversari che rischiavano figure goffe. Se lo godevano i compagni che spesso lo vedevano solo di schiena. Andava e non si faceva prendere, passava i muri come fosse una foglia, il tiro era un tiretto ma sempre in quell’angolo, banalmente perfido. Aveva l’effetto del cianuro: immediato.
Ronaldo è stato Mozart dopo Bach, Van Gogh dopo Leonardo e Giotto, Cassius Clay dopo Sugar Ray Robinson: qualcosa di artisticamente straripante e unico, uno squarcio nel cielo, la diversità. Disse il papà di Mozart: «É un miracolo che Dio ha fatto nascere a Salisburgo». Questo è stato un miracolo nato a Rio, Brasile. Ronie ha lanciato il pallone in un mondo alternativo alla tradizione, ha cambiato l’idea del campione, è stato affare per se stesso e per gli altri, ha avviato la dimensione dei calciatori moderni, magari un po’ robot, certo capaci di autopromuoversi e esaltare gli sponsor.
Poi, ieri, si è fermato. Anzi si era fermato da qualche anno. Stava in campo soltanto la controfigura. Era già conclusa la storia folgorante e tragica del suo rapporto con il pallone, gol e vittorie, grandi infortuni e faticosi ritorni, tre mondiali giocati e due vinti, due palloni d’oro e una grande delusione in Italia, quando si ritrovò in lacrime come ieri per uno scudetto perduto in novanta minuti. Moratti, che tanto lo ha amato, gli ha inviato l’ultimo telegramma. «É stato il più grande centravanti nella storia». Ed ha ricordato il privilegio di averlo nell’Inter.
Ronie ieri ha risfogliato l’album dei ricordi citando tutte le sue squadre: San Cristoval, Cruziero, Psv Eindhoven, Barcellona, Inter, Real, Milan, Corinthians. Elencazione dolente, soprattutto quando ha ripetuto: «Smetto perchè non ce la faccio più. É stato bello in un modo pazzesco, ma non riesco a fare più quello che penso. Ho troppi dolori, sono passato da troppi infortuni».
Si potrà distinguere se sia stata una resa o un ritiro. Certo ha pesato tanto l’ultimo vero nemico della carriera: l’ipotiroidismo. Una disfunzione che lo ha portato ad aumentare di peso. Lo ha spiegato con l’unico guizzo di cattiveria. «Quattro anni fa, al Milan, ho scoperto di avere questo disturbo che rallenta il metabolismo. Per controllarlo serviva assumere ormoni che nel calcio sono doping. Così saranno serviti quelli che mi deridevano. Ma, tranquilli, non avrò rancore contro nessuno».

Lo ha detto con la soave indifferenza con cui calciava il pallone in gol. Un colpo morbido, ma che faceva male. Si, Ronaldo ha battuto la cattiveria. Ora si è messo il pallone sotto braccio e se n’è andato. Comincerà una vita da manager.

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