Rosa e Olly, in aula le confidenze intercettate «Vadano a interrogare Azouz e i suoi amici»

nostro inviato a Como

Si può essere protagonisti senza dire una parola. Dietro i silenzi e le lacrime di Rosa Bazzi, avvolta nel suo maglione bianco, si nasconde uno dei tanti misteri di questo processo. Quel suo scuotere la testa, raggomitolata sulla branda in quella gabbia dalle sbarre color oro a guardare il marito mentre parlava di «amore» e di «dignità perduta», le battute scambiate con l’avvocato Luisa Bordeaux con le mani a protezione del labiale. Anche lei avrebbe dovuto parlare, ieri. Raccontare la «sua» verità, come ha fatto il «suo» Olly. Ma non l’ha fatto. Rosa non era pronta. Oggi la Bazzi vedrà i suoi legali in carcere per un colloquio. L’ultimo per capire se Rosa parlerà lunedì in aula. E che cosa dirà.
Per lei ieri hanno parlato quelle intercettazioni vecchie di un anno, scelte con cura dai magistrati tra 2.099 registrazioni. Da una pare di capire che i due coniugi sospettino di essere intercettati, «basta non parlare in casa», ma in macchina si lasciano scappare commenti e accuse. Poche battute, spezzoni di frase contro «quella là», Raffaella Castagna, contro la vicina di casa ed ex amica Daniela Messina «che si è fatta comprare dai Castagna a suon di assegni». E quella paura, «come quella sera che siamo andati a Como», che li assale alla vigilia dell’arresto. E ancora il sarcasmo contro i carabinieri di Erba, che se fossero «intervenuti prima non sarebbe successo quello che è successo», che anziché perdere tempo con loro avrebbero dovuto interrogare «quello là (Azouz, ndr) ed i suoi amici marocchini». Frasi pronunciate con assoluta tranquillità, come se quella mattanza scoppiata sopra le loro teste non li riguardasse.
E ancora quell’interrogatorio dell’8 gennaio. Le stranezze di quella notte, quando i carabinieri vanno a trovarla alle 3 e trovano le lavatrici in funzione, vestiti con macchie sospette, abiti bagnati. E su quello scontrino del McDonald’s di Como consegnato prontamente ai militari dell’Arma, sempre più sospettosi. Su quegli abiti, in quell’appartamento, né i carabinieri né i Ris troveranno qualcosa che colleghi i due coniugi Romano alla strage. Neanche una minuscola traccia.
Rosa, chiusa nella stanza coi magistrati, ricorda quella sera, ribadisce più volte di essere uscita tra le 19.30 e le 20 per andare a Como a guardar vetrine. Ma i magistrati non le credono. Mentre le domande dei pm la incalzano, lei tra le sbarre sembra rivivere quei momenti, la tensione di quel giorno che al marito è sembrato non finire mai. Il ricordo torna a quel cerotto, sequestrato dai carabinieri, pieno del suo sangue sul quale i pm insistono, convinti che sia legato alla colluttazione con le vittime della strage.

«La situazione non è bella», ammette Rosa, che però sembra sicura: noi quella sera eravamo a Como, noi non c’entriamo, noi non abbiamo fatto nulla. E di fronte a quelle accuse di Frigerio, che dice di aver visto Olindo a un metro di distanza, quella maledetta sera, Rosa risponde candidamente: «Guardi, non lo so. Non è vero».
felice.manti@ilgiornale.it

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