«La Roubaix? Tocca a mio figlio»

La prima in maglia iridata di campione del mondo, l’ultima in maglia tricolore, in mezzo un’altra Roubaix e tante storie che con il tempo diventano leggenda. La Parigi-Roubaix per Francesco Moser, 59 anni, grande interprete della «regina delle classiche», è da sempre qualcosa di speciale. E domani lo sarà ancora di più.
«Più che le giornate delle tre vittorie ricordo bene la mia prima Roubaix, nel 1974 ­ ci racconta Francesco Moser, che domani sarà presente al velodromo della città francese -. Tanta fatica, molte forature, io che inseguo Goodefrot e Merckx nel tentativo disperato di rubare qualche segreto del mestiere per stare dietro a quei due scatenati. Ricordo la Foresta di Arenberg: 2400 metri di pavé sconnessi e aguzzi come colli di bottiglia, che sono il vero e proprio “punto x” della corsa. E io che la affronto a tutta e vedo davanti a me corridori che saltano in aria come birilli. Io che lascio andare la bicicletta, senza pensare a niente e mi dico: se va va. Corsa affascinante, folle e ingiusta come poche, ma che libidine correrla. Domani sarà diverso: a correre con i ragazzi di 17-18 anni ci sarà anche mio figlio Ignazio. Io a lui non ho detto niente, ma non vi nascondo che un po’ di apprensione ce l’ho. Quella è una corsa da svitati».
Trent’anni dopo, torna un Moser: Ignazio. Domani si correrà l’edizione numero 108 della classica del pavé, che papà Francesco vinse per tre volte consecutive, dal ’78 all’80. Sempre domani, a distanza di trent’anni, Ignazio, figlio di cotanto padre, correrà l’edizione numero 8 della piccola Roubaix, riservata alla categoria juniores: 122 chilometri di cui 29 di pavé suddivisi in 16 settori.
«Correranno la parte finale e arriveranno nel velodromo di Roubaix circa tre ore prima di quella dei grandi. Sono più emozionato di lui. Ignazio corre da quando ha 7 anni, non l’abbiamo mai forzato, anzi. Se fosse per sua mamma (Carla), non dovrebbe nemmeno correre, perché di ciclismo ne ha piene le scatole. Io, invece, non mi sono mai espresso, gli ho sempre fatto fare solo quello che desiderava fare, tanto è vero che un anno fa è venuto da me e mi ha detto: “Papà, io non corro più”. Fai quello che vuoi, gli ho risposto».
Poi però ha deciso di tornare sui suoi passi, o meglio, sui pedali.
«Ha fatto tutto lui, io ho solo preso atto di quanto aveva deciso. Probabilmente si era stancato, aveva un po’ perso gli stimoli: il ciclismo non è uno sport semplice, richiede sacrificio e abnegazione. Poi probabilmente gli è tornata la voglia, così mi ha chiesto cosa ne pensavo se lui fosse tornato a correre. Io gli ho risposto: ok, fai pure, ad una condizione: se torni si fanno le cose seriamente, altrimenti evita. Devo dire che lo sta facendo bene. Correrà la Roubaix per la prima volta, con la maglia della nazionale italiana. Io sarò là, a vedere una corsa che a me ha dato emozioni uniche, lui me le sta già dando».
Che tipo di corridore è Ignazio?
«Fisico possente: 85 chili distribuiti su 189 centimetri di altezza. Un tipo alla Tom Boonen, per intenderci. Bravo sul passo, però che fatica quando la strada tende a salire. Alla sua età io neanche correvo, lui deve solo pensare a divertirsi, a fare esperienza, a imparare a fare il corridore, poi si vedrà. Se mi aspetto qualcosa? Spero solo che arrivi alla fine. Concludere una corsa così è già una vittoria. L’importante è che non si faccia del male».
Consigli per domenica?
«Pochi, perché non voglio mancare di rispetto a chi ha il compito di dirigerlo (ct azzurro è Rino De Candido). Gli ho solo detto di stare attento: se piove, sta’ in mezzo alla strada. Se è asciutto, sta’ ai bordi».
E della corsa riservata ai professionisti?
«Se Cancellara è quello di domenica scorsa al Fiandre, c’è poco da fare: lui è il grande favorito. Poi c’è Tom Boonen, uno che in certe gare c’è sempre. E poi speriamo anche che ci sia spazio per il nostro Filippo Pozzato, costretto a saltare il Giro delle Fiandre a causa di un virus che l’ha messo ko. Non sarà certamente al top della condizione, ma lui ha tanta classe e qualcosa di buono può far vedere. Però la Roubaix è bella a prescindere. Chiunque la vinca.

È l’unica corsa che in quei 259 km, setacciati da 27 settori di pavé (il primo dopo 97 km di corsa; in totale 52,9 km in pavé, ndr), rende grande anche chi arriva per ultimo. È un po’ come la vita: è piena di insidie e amarezze, ma vale la pena correrla».

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