A una ventina di giorni dall’arrivo della pillola abortiva RU486, siamo arrivati a una conclusione: meno si affronta l’argomento, meglio è. Anche ora che il primo aborto è stato fatto (lunedì al Niguarda su una donna di 30 anni) ne parlano mal volentieri i medici, gli infermieri, i politici. Abbiamo verificato di persona, chiedendo informazioni alla clinica Mangiagalli, dove ogni anno vengono effettuati 1.400 aborti e dove i ginecologi non si aspettano più di una trentina di domande per la RU486.
Entriamo nel pronto soccorso di via Commenda a metà mattinata. Lì si rivolgono, soprattutto nel fine settimana, anche le donne che richiedono la pillola del giorno dopo per rimediare a rapporti sessuali non protetti.
Ci viene incontro una dottoressa in camice bianco. Le diciamo che vorremmo avere informazioni sulla RU486. Chiama una collega, la quale ci dice che in Lombardia non è ancora arrivata, non si può ancora chiedere. «Che io sappia, la usano in Piemonte...». Evidentemente è poco informata sull’argomento, come se nessuna ragazza dall’inizio di aprile ad oggi le avesse rivolto quella domanda. In realtà, come confermano alcune fonti interne alla struttura, le richieste non sono mancate. Tuttavia, non è stato praticato nessun aborto con RU486 perché le donne avevano oltrepassato il termine delle sette settimane entro cui la pillola può essere prescritta.
Per avere notizie più corrette, ci viene consigliato di rivolgerci alla segreteria, a metà corridoio a destra. Così facciamo. La sala d’attesa dell’ambulatorio è tutta piena. Donne straniere, quarantenni italiane accompagnate dall’amica del cuore. Probabilmente sono in coda per essere ricoverate e per le visite pre-aborto. Entriamo in segreteria e in pochi minuti ci viene fatto il quadro completo della situazione e dei percorsi da intraprendere prima di un eventuale ricovero.
Alla domanda esplicita: «Mi può dare qualche informazione sull’aborto con la RU486?» ci viene fatto capire che sì, è possibile interrompere la gravidanza anche così, ma è molto meglio l’aborto chirurgico. «Tenga presente - ci viene precisato - che con l’aborto farmacologico bisogna restare in ospedale per tre giorni. Con quello chirurgico si fa tutto in day hospital. E poi bisogna anche vedere se c’è tempo: la RU486 si può utilizzare solo entro il 49esimo giorno dall’inizio dell’ultima mestruazione, cioè entro la settima settimana. Spesso chi ci chiede informazioni sulla pillola, è già oltre il termine per poterla utilizzare».
Prima di spiegarci come funziona la pillola, ci viene sintetizzato il percorso da seguire: prima serve un certificato medico che attesti lo stato di gravidanza. «Lo fanno in qualsiasi consultorio, se vuole le dico il più vicino a casa sua e può prendere appuntamento». Andare in consultorio significa anche sostenere un colloquio (volontario) con una psicologa, affrontare l’argomento aborto e verificare i motivi della scelta e la reale convinzione. Dopo di che si torna alla Mangiagalli per compilare la cartella clinica, eseguire l’ecografia prevista dal protocollo e sostenere i colloqui con i medici. Come viene esplicitamente scritto nel foglio informativo, è dovere dei ginecologi «verificare che la paziente sia a conoscenza dell’alternativa chirurgica». Come a dire: scegli pure, ma è bene che tu sappia che hai anche un’altra possibile strada. È così anche a detta di tanti medici (non obiettori) che si sono trovati a fare i conti con le conseguenze psicologiche e fisiche della RU486 sulle donne e che hanno manifestato numerosi dubbi, fin da subito. In tanti, anche quelli che praticano aborti da vent’anni, hanno sollevato delle perplessità sul processo «lungo tre giorni» a cui va incontro la donna. Un percorso «solo apparentemente meno invasivo di un’operazione».
Prima di lasciare l’ambulatorio, ci vengono messi in mano dei fogli pinzati. «Legga qui, trova tutte le informazioni nel dettaglio».
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