E così ancora una volta, i due amici di sempre hanno incrociato le lame mostrandoci scintille. Francesco Storace ha intinto la sua lingua affilata nel calamaio di Panorama, e ha usato contro il suo leader le parole che fanno più male: «Caro Fini, è ora che ti dimetti». E poi, per aggiustare bene il carico, ha cercato il tallone dAchille, come solo chi conosce sa, a colpo sicuro: «Fini è un leader... scaduto, abbiamo bisogno di un ricambio. Lui sopporta il partito: un tempo era un leader amato, oggi è solo temuto». Mentre Fini, linteressato, lex principale, lamico, ha risposto con la caustica sintesi che riserva ai problemi più fastidiosi. «Dice così? Lo apprendo adesso. Ho amicizia per Francesco Storace, ma politicamente sta sbagliando tutto. Perché dovrei dimettermi se ho con me la stragrande maggioranza dei delegati e degli elettori di An?».
Certo, da due che hanno condiviso tutto è lecito attendersi tutto, e soppesare anche le più feroci delle polemiche con una punta di scetticismo e leterno sospetto di un raffinatissimo gioco delle parti. Se non altro perché Fini e Storace si sono conosciuti a Il Secolo dItalia ormai trentanni fa, e chiunque andasse a rileggersi il prezioso libro di Mauro Mazza su I Ragazzi di via Milano troverebbe i ritratti vividi dei due protagonisti di oggi. Storace reporter ruvido, inchiestista e attacchino impavido ex autista di corrente per Michele Marchio. Lex ragazzo di Acca Larentia che aveva preso il posto di chi non ce laveva fatta più ad andare avanti dopo la tragica strage del gennaio 78 diventandone segretario. Fini il delfino designato da Giorgio Almirante, fiduciario studentesco, abituato a compilare con diligenza le note di servizio e distribuire le agenzie ai redattori. Storace fascista descamisado di periferia, Fini fascista «a-fascista» tirato dentro il vortice della politica per lepisodio ormai mitologico di un picchetto extraparlamentare che voleva impedirgli di vedere John Wayne in Berretti verdi. Due fatti per stare luno con laltro per la legge dei contrari, «Checco» con il sorriso e la battutaccia guascona pronta, «Gianfranco» carisma glaciale e freddura sulla punta della lingua. Storace «brutto sporco e cattivo come tutti noi» (per stare alle parole di uno che li conosce bene come Teodoro Buontempo), Fini «con quella valigetta di pelle, che non ho mai capito cosa cazzo ci fosse dentro, ma che rispetto a noi lo faceva apparire un lord».
La data in cui la storia comincia davvero è un torrido pomeriggio di estate: 9 luglio 1991, una nota quasi asettica informa: «Il segretario del Msi-Dn Gianfranco Fini ha nominato capo dell'ufficio stampa del partito il giornalista Francesco Storace, che opererà alle sue dirette dipendenze». Come accade per tutti i grandi portavoce, spesso è vero il contrario, ed è il leader algido, che nelle mani di Storace diventa un soggetto mediatico di successo. Storace ha 32 anni. Fini è un vecchio-nuovo leader di 39, appena risorto dopo una sconfitta congressuale omerica. Il clima? Da Ultimi giorni di Pompei, come ha raccontato lo stesso Storace a Stefano di Michele de lUnità in una delle sue mirabili sintesi: «Rauti voleva sfondare a sinistra, aveva solo sfondato il partito. Le percentuali erano ai minimi storici, da prefisso telefonico. Noi non contavamo un cazzo, avevamo poco da dire, e se lo dicevamo non ci riprendeva comunque nessuno». Invece Tangentopoli fa franare la Prima Repubblica e i due cervelli fini costruiscono la propria fortuna sulla scia del presidente picconatore Francesco Cossiga. Ancora Storace: «Ogni volta che lui faceva una esternazione, Gianfranco faceva un comunicato riprendendo la dichiarazione spiegandola. Dopo un po tutti iniziarono a pensare che Fini era daccordo con Cossiga, e noi finimmo su tutti i giornali tutti giorni, quelli del Colle e del Piccone. Ovviamente - eh, eh - non era vero nulla». Durante la battaglia elettorale di Roma, contro Rutelli, i due diventano una macchina da guerra: Storace informale, politicamente scorretto ed efficacissimo, Fini mediatico, catodico, telegenico. Poi dopo Fiuggi, Storace diventa Epurator, Governator, leader di opposizione, capo corrente, e molti dicono che in realtà sia daccordo con il leader. Quando fonda con Gianni Alemanno la protocorrente Cantiere Italia (poi la Destra Sociale), in realtà frena la diaspora verso la Fiamma di Rauti; quando convoca le masse allExcelsiorper protestare contro la Svolta dello Yad Vashem, in realtà impedisce anche la transumanza verso la Mussolini. Uno identitario, laltro post: il gioco di squadra funzionava ancora. Racconta la governatrice diessina dellUmbria Maria Rita Lorenzetti che un giorno si ritrova con Storace a una conferenza Stato-Regioni. Fini, vicepremier, è dallaltra parte del tavolo, circondato da tecnici di Palazzo Chigi in grisaglia. Il quadro fa impressione. E lei, umbra verace: «A Storà! Ma quelli so tutti fascistoni come te?». E lui, ridendo: «Tutti tranne quello in mezzo con gli occhiali! Eh, eh, eh!». Quello, cioè Fini, che in un esecutivo, ride per laneddoto, perché era come se lorgoglio missino e la furia oppositrice di Storace fossero la migliore certificazione possibile delle sue discontinuità golliste.
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