Quando nel 2006, poco piùchetrentenne, portò a sua madre Maria Teresa, 64 anni, una parte dei primi risparmi - 100.000 euro, mica bruscolini-si sentì redarguire con asprezza calabra: «Dove li hai presi? Restituiscili subito!». Lui desiderava regalarglieli, ma lei pensava che fossero frutto di malaffare. Ci volle del bello e del buono per convincere la donna che erano invece il provento di un ottimo affare, il migliore che Antonino Delfino abbia mai combinato in vita sua: una compagnia aerea. Mentre il nordista Roberto Castelli, sottosegretario alle Infrastrutture, si straccia la grisaglia perché la rinata Alitalia non ha perso la brutta abitudine di fargli pagare 325,80 euro il volo di sola andataRoma-Milano, il sudista Delfino ha trovato la quadra, direbbe Bossi: 55 euro, non un centesimo in più. Tariffa unica valida non solo per la rotta che collega le due capitali d’Italia ma su tutto il territorio nazionale: 55 euro il Roma-Genova, 55 euro il Roma-Venezia, 55 euro il Roma-Torino, 55 euro il Roma-Lamezia Terme, 55 euro il Palermo-Catania. A partire da fine mese, giorno più giorno meno, salvo intoppi. «L’ho chiamata Love cost, anziché low cost, perché a me pare propriounamoredi tariffa», scalda i motori sulla pista di rullaggio.
E non è finita. La Dea airlines, dove l’acronimo non indica una divinità bensì le burocraticissime iniziali di Delfino Antonino, nato il 30 ottobre 1974 a Bagnara Calabra, promette sfracelli anche in Europa: week-end a 150 euro a volo, sempre tutto incluso, per Londra, Parigi, Amsterdam, Berlino, Madrid, Barcellona, Praga.
Costretto a percorrere per il suo lavoro di imprenditore non meno di 200.000 chilometri l’anno - cinque volte il giro del mondo all’equatore - e a sopportare le giugulatorie tariffe dei vettori vecchi e nuovi, il giovane calabrese, un geometra con studi in business administration, ha pensato di reagire nell’unico modo che gli è parso intelligente: s’è fatto un’Alitalia in casa. Ma la sua vera intuizione è stata un’altra: applicare il criterio dell’abbonamento al tram, cioè garantire i biglietti scontatissimi e a prezzo bloccato soltanto ai fortunati possessori della Dea card. Per averla, costoro devono versare 25 euro l’anno. Considerato che Delfino ha già raccolto 3 milioni di prenotazionie che conta di arrivare entro breve tempo a 16 milioni di aderenti, i conti sono presto fatti: 75 milioni di euro già in saccoccia e altri 325 milioni in arrivo. Totale: 775 miliardi (circa) di lire, che sembrerebbero una discreta base di partenza persino per la più temeraria delle imprese. Anche perché non è che i passeggeri volino gratis: poi devono comprare il biglietto. Sul quale, ça va sans dire, il nostro guadagna ancora, eccome se guadagna ancora.
Delfino ci ha aggiunto un altro ovetto di Colombo, scusate il bisticcio zoologico. Chi sottoscrive la Dea card può facoltativamente aderire a un servizio accessorio che consiste nell’invio di un Sms settimanale del costo di un euro con cui la compagnia aerea lo aggiorna su nuove rotte, week-end, vacanze, promozioni particolari. «Novanta centesimi di guadagno netto per ciascun messaggino», calcola con gli occhietti che brillano. «A regime faranno altri 14,4 milioni di euro a settimana, che, moltiplicati per 52 settimane, a fine anno diventeranno quasi 750 milioni di euro. In pratica un raddoppio degli introiti della Dea card».
Mi pare che stia facendo i conti senza l’oste.
Non è detto che chi acquista la Dea card sia
anche disposto a sborsare altri 52 euro per
l’Sms settimanale.
«Può darsi. Però, siccome i primi 3 milioni di
clienti hanno già accettato, sono fiducioso».
Alitalia annaspa e lei inaugura una compagnia
aerea. Come le è venuto in mente?
«Come mi è venuto in pancia, semmai. La fame aguzza l’ingegno.
Mi chieda di quando saltavo
i pasti».
Glielo chiedo.
«Terzogenito di cinque fratelli. Vedo la fatica
da bestie dei miei genitori e mi sento in dovere
di portare il mio contributo.Già a 7 anni il pomeriggio,
dopo la scuola, vado a fare il piccolo di
bottega dal barbiere Musumeci, detto Melo.
Spazzo via i capelli per terra, tengo in ordine,
qualche commissione. Dal martedì alla domenica
mattina. Per 500 lire di mancia a settimana.
Tornando a casa, con quei soldi mi fermavo a
comprare il formaggio grana
grattugiato. Un lusso, per
noi».
Vi mancavano i maccheroni
su cui metterlo.
«La fame è una cosa talmente
brutta che non la si può
nemmeno spiegare. Chi spiega
la fame, è perché non l’ha
mai provata. Mi porterò dentro
per sempre questa ferita.
A mio padre Angelo, escavatorista,
davano lo stipendio
ogni quattro o cinque mesi.
Allora lui cambiava padrone
sperando nella regolarità dei
pagamenti e così cadeva dalla
padella nella brace. Ricordo
come se fosse oggi la vigilia
di Natale del 1982. L’impresario edile aveva assicurato
a papà che gli avrebbe dato un acconto il 24
dicembre. Non si fece vedere. Mia madre aspettava
quei soldi per fare la spesa e preparare il
pranzo del giorno dopo...».
Non oso chiederle il menù.
«In una vita di lavoro mio padre non entrò
mai in un bar, neppure per un caffè. Arrivava a
casa la domenica, si toglieva la tuta sporca, si
lavava e si metteva a tavola con noi. Ma se i
piatti sono vuoti? È morto in sei mesi per un
tumore, senza darmi il tempo di regalargli una
vita migliore. Non so come abbia fatto a non
diventare ladro o rapinatore. Era l’onestà fatta
persona. Mi guardo allo specchio e lo invidio».
Continui.
«Appena diplomato m’ingegno come rappresentante
delle patatine San Carlo nella provincia
di Reggio Calabria. Ma Bagnara mi va stretta.
Una mattina del 1994, a 20 anni, emigro a
Torino. Sedici ore di treno, in tasca soltanto
300.000 lire e neanche un indirizzo dove andare.
Sceso alla stazione di Porta Nuova, compro
un giornale che pubblica offerte di lavoro.Non
ho il tempo di sfogliarlo: sulle vetrine del caffè
Reposi, in via XX Settembre, vedo il cartello
“Cercasi barista”. Entro: eccomi qua. “Cominci
subito”, mi dice il proprietario. Arrivata sera,
vado nell’albergo di fronte, l’Astoria. Al titolare
parlo chiaro: sono stanco morto, ho bisogno di
una stanza per dormire, ma non so se a fine
mese avrò tutti i soldi per pagargliela. E lui, un
uomo anziano, aprendomi la porta di una camera
al primo piano: “Fa niente. Pagherai quando
li avrai”. Finito il turno al bar, andavo in giro per
tabaccherie a vendere accendini e carte da regalo
che mi procuravo all’ingrosso. Ho fatto questa
vita fino al 1997».
Poi che è successo?
«Una nostalgia terribile. Per me la famiglia è
tutto. Sono tornato al Sud. Ho preso una commessa
delle Ferrovie dello Stato per il rifornimento degli
spacci aziendali di ReggioCalabria
e Villa San Giovanni, 300 milioni l’anno. Papà
era talmente diffidente che la prima consegna
col camioncino volle farla lui: non credeva che
esistessero gli spacci Fs. Mi sono sposato con
Santina. Ma nel 1999 il matrimonio è naufragato,
proprio mentre aspettava nostro figlio, che
oggi ha 8 anni. Sono partito per Roma, ricominciando
da zero. Ramo aerei».
Perché proprio gli aerei?
«Non riuscivo a capire come mai l’Alitalia fosse
in difficoltà pur facendomi pagare 200 euro
il volo Reggio Calabria-Roma. Mi sono messo a
studiare. Un bel giorno un vecchio cliente mi
chiede se sono in grado di trovargli un charter
Milano-Roma per 100 passeggeri. Comincio a
cercare.Escopro che noleggiare alla Aircraft di
Miami un Boeing 757 da 198 posti costa 3.800
euro per ogni ora di volo».
Appena 19 euro a persona.
«Già. E addirittura scende a 2.800 dollari se il
contratto supera le 250 ore lavorative. Per divertimento
ho simulato varie rotte in rapporto alla
popolazione che viaggia in aereo. Ho speso tutto quello che avevo messo da parte per
un’indagine
di mercato basata su questa domanda: per
25 euro l’anno lei acquisterebbe una card che le
dà diritto a pagare su qualsiasi tratta nazionale
55 euro? Il 99% degli intervistati ha risposto sì».
E lei s’è buttato.
«Ho stressato per mesi Sabrina Fiaschi,manager
di Air One, per un contratto bloccato a 54
euro a volo. Niente da fare: i costi oscillavano
fra i 70 e gli 80 euro. Alla fine una società di voli
charter tedesca mi ha offerto i suoi aerei a 4.800
euro l’ora, cioè 29 euro a passeggero».
Più tutto il resto che ci va dietro.
«No, no, incluse le operazioni di check-in e
riconsegna bagagli».
E le tasse aeroportuali?
«Incidono dai 6 ai 12 euro. Quindi, nella peggiore
delle ipotesi, il costo sale a 41 euro per un
biglietto che io vendo a 55.
Senza contare la Dea card. A
fine ottobre ho chiuso l’accordo
con i partner tedeschi
per cinque Md80 da 164 posti
che faranno base a Roma.
Comincerò con quattro voli
quotidiani andata-ritorno su
Milano, due su Palermo e
due o tre sulle altre rotte».
Difficile comunque conquistare
i passeggeri abituati
dalla pubblicità ai voli low
cost da 9,99 euro.
«Difficile far comprendere
ai consumatori la giungla tariffaria
delle compagnie. Io
non andrò mai in competizione
con i 9,99 euro, per il semplice
motivo che ormai anche
il cliente più sprovveduto
ha imparato a sue spese che quei voli low
cost, fra assicurazioni obbligatorie, tasse aeroportuali
e fuel surcharge, cioè il sovrapprezzo
carburante derivante dalle quotazioni del petrolio,
alla fine vengono a costare come minimo
110 euro. Esattamente il doppio della tariffa
fissa, senza sorprese, che offre Dea airlines».
E perché allora un volo Alitalia costa quattro,
cinque, sei volte tanto?
«Non l’ho mai capito. Non è possibile che possa
finire in bancarotta una compagnia di bandiera
che vende a 325 euro il Milano-Roma. Ne
fa 27 al giorno di quei voli. È un business pazzesco».
Anche la sua pretesa di vendere la Dea card a
16 milioni di clienti mi sembra pazzesca.
«Avrei detto la stessa cosa anch’io, se i sondaggi
che ho commissionato dal 2001 al 2006, ogni
anno, non avessero sempre dato lo stesso risultato:
i clienti non aspettano altro. Del resto, scusi,
lei spenderebbe 25 euro l’anno in cambio
della garanzia di pagare qualsiasi biglietto aereo
55 euro? Risponda».
Sì.
«Visto? Gli italiani dai 18 ai 55 anni sono circa
30 milioni e più del 10% di loro vola abitualmente,
il che spiega i 3milioni di persone che hanno
subito prenotato la Deacard. I numeri dell’intero
comparto aereo sono impressionanti: più di
300.000 voli l’anno; 112 milioni di passeggeri,
in costante aumento; 44 aeroporti adibiti ex lege
al trasporto aereo civile pubblico, dislocati
su tutto il territorio nazionale, isole minori comprese.
E il sistema oggi garantisce il collegamento
diretto solo su 91 delle 465 potenziali
direttrici».
Sì, ma ai 13 milioni di clienti che ancora mancano all’appello
la card dovrà pur venderla. Escludo
che vengano a suonarle il campanello per
acquistarla.
«Sto mettendo in piedi una rete di 5.000 agenti,
per lo più giovani disoccupati, che avranno
una provvigione su ciascuna carta venduta.
Consideri che si paga da sola al primo volo, visto
che nessuno oggi ti porta da Milano a Roma
con 80 euro, cioè i 55 euro del biglietto e i 25
euro della Dea card».
Quanti piloti ha?
«Dieci. Più dieci assistenti di volo. Siamo una
compagnia low cost, non lo dimentichi».
Il caffè, almeno, lo servite?
«Ci mancherebbe altro. Certo che sì».
Però gli aerei non sono suoi.
«Gli aeromobili hanno costi elevati. Da 70milioni
di dollari per i modelli corto e medio raggio,
come il Boeing 737-800, ai 300 milioni di
dollari per il lungo raggio, come il 747. Il nuovo
modello 787 Dreamliner della Boeing ha un
prezzo inferiore: supera di poco i 50 milioni di
dollari. Ciò premesso, sono le compagnie low
cost che continuano ad acquistare nuovi aerei:
Ryanair, per esempio, ha ordinato 29 Boeing
737-800 ed Easyjet 22 Airbus A320. In futuro
anche Dea airlines avrà aeromobili suoi».
Che cosa pensa del salvataggio di Alitalia da
parte di Cai?
«Tutto il male possibile. È stato un errore cedere
la compagnia di bandiera a imprenditori
privati. Doveva tenersela lo Stato. Guardi che
fine ha fatto la Cit, la Compagnia italiana turismo
fondata nel 1927, privatizzata dieci anni
fa. Il tribunale fallimentare di Milano l’ha messa
in amministrazione straordinaria con oltre
un miliardo di passivo e appena 150 milioni di
euro di attivo. Il terzo più grande crac della storia
recente dopo Parmalat e Cirio».
Non parlerà così perché la sua Dea è antagonista
di Alitalia?
«Quando si profilò la svendita, mandai un telegramma al presidente del Consiglio e alla stessa
Alitalia per presentare un mio progetto. Sa
che cosa fece l’amministratore delegato della
compagnia? Lo girò alla Guardia di finanza!».
Insomma Roberto Colaninno e soci hanno fatto
un affarone.
«Secondo me, sì. Alitalia oggi è un business.
Cioè proprio quello che non doveva essere».
Non la seguo.
«Doveva solo portare in alto il tricolore. È o
non è la compagnia di bandiera? Invece se la
sono letteralmente mangiata.
Sto parlando di chi c’era
prima di Cai, ovvio. Con tutti
quei voli avrebbe dovuto presentare
conti d’oro».
Non teme che Alitalia possa
farle concorrenza?
«Non può. Io non ho certo i
costi fissi che ha Alitalia.
Nemmeno le Ferrovie possono farmela:
l’Eurostar Milano-
Roma costa già ora 67,50 euro
in seconda classe».
Non teme nemmeno di restare
a terra per gli scioperi?
«No. Se ai dipendenti offri
certezze e serietà, non hai
problemi. Il mio business è il
servizio. Per altri è il costodel
servizio che diventa un business».
In che modo investe i suoi guadagni?
«In immobili. Non credo alle banche. Per me
un euro e un milione di euro hanno lo stesso
valore».
Come vede il futuro dell’Italia?
«Bene, se resta nelle mani di Berlusconi».
Lei, calabrese, cerca di unire l’Italia con gli aerei.
Ma su al Nord ne hanno le tasche piene del
parassitismo del Sud.
«Le cose peggiori, a cominciare dalle truffe,
accadono al Nord, mi creda».
(439. Continua)
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