Caro dott. Granzotto, come ogni giorno anche oggi ho «gustato» la sua risposta giornaliera, che guai se mi manca. Non so perché, dopo averla letta, la giornata può andare avanti con più fiducia e buonumore. Ritaglierò a futura memoria la spiegazione chiara e concisa su fascismo e antifascismo, ma per ricambiare, le fornirò spiegazione del perché in casa mia si festeggia con gioia il 25 aprile. Sono nata in provincia di Pordenone e ogni anno in quel giorno nel mio ricordo vedo prati verdi animati di gente festosa, munita di cesti pieni di vivande primaverili (uova sode, frittate, insalatone, focacce ecc.), sparsi su tovaglie multicolori, bambini ruzzolare e rincorrersi, adulti «circolare» e cantare (specie dopo qualche bicchiere): un pic-nic insomma? No. È la festa di S. Marco, una delle tante benedette eredità della «gloriosa» Repubblica (di Venezia sintende). Mi risulta che «San Marco» è ancora in vigore, in quei luoghi e a casa mia, anche se ora casa mia è altrove.
Quella di San Marco sì che è una festa, gentile lettrice: con la gita fuori porta, i picnic a base di «fortaja» (che è, lo dico per i lettori ignari, una frittatona farcita con diversi ingredienti, patate, cipolle, salame e via andare), la fiasca del vino e tuttintorno i bambini che giocano. Spostandosi a Venezia, il 25 aprile dedicato allevangelista patrono lo si festeggia con un gesto gentile, scambiandosi il «bocolo», un bocciolo di rosa (e qui, senza star a raccontare ai lettori ignari del perché e percome di questa antica tradizione, dirò solo che la nobile Maria Partecipazio, prima dama a ricevere il «bocolo», siamo nell804, dodici secoli fa, aveva per nomignolo Vulcana. Escludendo, vista lepoca, ogni suggestione arcadica, cè da sospettare che la donzella avesse del temperamento, non se ne restasse lì, insomma, a fare il piccolo punto). Una festa gioiosa dunque, quella di San Marco e lo stesso non può dirsi per laltra, concomitante, della Liberazione. Di andamento sempre un po plumbeo, cerimonioso, manierato, ovunque la si indica limpressione è che si stia svolgendo sulla Piazza Rossa del Cremlino, ai tempi di Baffone. Daltro canto in quel giorno si celebra una sconfitta. Che la guerra fosse giusta o ingiusta non cambia nulla: le sconfitte non mettono mai di buonumore. Né è servito rimpannucciare la disfatta con la palandra della liberazione dal fascismo: primo perché sempre disfatta resta e poi perché semmai il merito di quella «liberazione» va in prima battuta ai firmatari dellordine del giorno Grandi e in seconda (e definitiva) battuta agli angloamericani. Insomma, se a «liberarci» dovevano essere i partigiani, saremmo ancora qui ad aspettare.
Cè da aggiungere che il 25 aprile del 45 la partita non venne chiusa, come cera da attendersi a guerra conclusa (dopo essere stati «liberati»). Il 25 aprile segna infatti linizio di quella mattanza indiscriminata (20mila morti), per mano dei «liberatori», esemplarmente raccontata ne «Il sangue dei vinti» di Giampaolo Pansa. Essendo le ricorrenze civili forme di testimonianza di vicende fauste per il Paese e per i suoi cittadini che nel festeggiarle ritrovano le ragioni dellunità e della concordia, quella della Liberazione non sembra dunque propriamente adatta allo scopo.
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