La vertenza-scandalo che circonda la destinazione (da un bel po' d'anni) dell'Acquasola sia intendendo quest'ultima nelle diverse accezioni che la versione romanesca suggerisce (er sòla, 'na sola), sia riconducendola all'eloquio locale (piuttosto in disuso, «andà all'acasseua»), resta un esempio, a tutt'oggi, di una pochezza amministrativa senza eguali. Non vi è dubbio che la soluzione individuata dalla giunta Pericu, era ed è di buon senso proprio perché avrebbe consentito di migliorare la situazione nel suo complesso. Infatti (parcheggio a parte, struttura comunque arrecante in centro notevolissima utilità) sia l'azienda che lo avrebbe realizzato sia gli oneri urbanistici che il Comune ne avrebbe ricavato, avrebbero permesso di arredare al meglio l'area sottraendola a quella forma di marginalità e abbandono in cui tuttora versa in significativa misura. Una scelta razionale è stata dunque revocata in dubbio dall'insana intraprendenza di donna Marta Vincenzi, sindaco attualmente in carica. Lei, Direttore, ha bene riepilogato la vicenda nei suoi snodi essenziali. Questa è «maladministration» vera e propria. Va però nello stesso tempo riconosciuto che queste pseudotematiche «verdi» trascinano sentimentalmente un bel po' di gente. Non soltanto quelle persone che vengono mobilitate via telefono, e-mail e così via (tra l'altro ricordo che anch'io ricevetti da persona ignota una e-mail in proposito e mi guardai bene dall'assecondarla, non recandomi sul posto a manifestare, ohibò! Guarda caso, della faccenda udii poi che se ne parlava anche in liceo e c'era chi, prima gentile e tranquillissima, proponeva di mobilitarsi per la circostanza). È chiaro che il sindaco per questa spericolata operazione aveva bisogno di una determinata quota di battage che le desse conforto, volendo rovesciare una decisione, tutto sommato, piuttosto sensata, presa da chi l'aveva preceduta al governo della città. Un'operazione che sarebbe stata in positivo nel suo complesso è stata resa in perdita finanziariamente.
È curioso il fatto che rivedendo film degli anni '60, diretti da registi importanti si possono vedere sequenze dove si contrappone il nuovo edilizio del boom economico a scorci di fatiscenti case vecchio stile dei quartieri popolari o di campagna e queste visioni sono significative nella loro sostanziale ambiguità. Nel senso che tali contrapposizioni da un lato suscitano una sorta di rimpianto verso ciò che ormai è irreversibilmente invecchiato e imbruttito e, accanto al sentimento di nostalgia per i segmenti del passato, dall'altro lato essi ci appaiono in tutta la loro improponibilità, come esteticamente sorpassati ad un punto tale che andrebbero sostituiti comunque da un'architettura e da un'urbanistica aggiornate.
Evidentemente l'ambiguità sta nel rimpiangere il vecchio e nello stesso tempo nell'ambire che il nuovo lo sostituisca (e sentire che questo processo per quanto auspicato non può generalizzarsi completamente, donde i fenomeni di emarginazione e di degrado che muovono la precoce ideologia ambientalista associata alla protesta sociale che però non riesce ad uscire dall'ambiguità che la caratterizza, essendo contraddittoria intrinsecamente come le quattro zampe di un animale che due a due vogliano muoversi per direzioni differenti).
* docente filosofia Liceo DOria
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