Il sì del prefetto all’origine dello scontro

da Milano

«Se per motivi religiosi una persona indossa il burqa, lo può fare, basta che si sottoponga all’identificazione e alla rimozione del velo». Nasce tutto da questa dichiarazione con cui il prefetto di Treviso, Vittorio Capocelli, ha deciso di permettere l’uso del velo islamico, venerdì scorso al termine del comitato tecnico ristretto convocato ad hoc, il domino di polemiche che ieri ha infiammato la politica travolgendo il ministro della Famiglia Rosy Bindi.
Il primo a replicare è stato il vicesindaco leghista di Treviso, quel Giancarlo Gentilini che già tre anni fa diede ordine alla polizia municipale di arrestare le donne con il burqa perché la legge 152 del 1975 vieta, all’articolo 5, di fare uso in luogo pubblico di qualsiasi oggetto che renda difficoltoso il riconoscimento, salvo giustificato motivo: il burqa è una «mascherata permessa a Carnevale ma che non può essere tollerata tutti i giorni dell’anno» ha messo benzina il già soprannominato «sceriffo». Forse sarebbe finita lì, se Rosy Bindi non avesse aggiunto benzina: il velo va tollerato, ha detto la candidata alla guida del Partito democratico, perché «noi come vogliamo i nostri crocifissi appesi nelle nostre aule siamo anche rispettosi del velo, se viene liberamente portato come segno della propria civiltà».

A dirimere la questione dovrà essere un chiarimento che dica se vale di più la legge del 1975 o la circolare del Dipartimento di polizia giudiziaria del 2004, che considera il burqa legittimo perché «segno esteriore di una tipica fede religiosa».

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