Le scene che provengono da Haiti ci descrivono un universo distrutto: da ogni punto di vista, dato che la rovina causata dalle forze della natura ha acuito il disastro sociale figlio di decenni di regimi variamente illiberali. La potenza del terremoto è stata amplificata dalla povertà, conseguente a politiche che hanno minato in maniera metodica il primo pilastro di ogni economia sana: la proprietà privata.
Dalla desolazione di Port-au-Prince oggi ci giungono immagini di «sciacalli» uccisi dopo aver tentato di assalire quanto rimane di negozi e supermarket. C'è però da chiedersi se quelle rapine siano in parte giustificabili e se quei poveri uomini non siano criminali, ma semplici disperati che provano a recuperare come possono ciò che è necessario a sopravvivere: qualche bottiglia d'acqua e un po' di cibo, gli strumenti minimi per arrivare a domani.
Quando ci si interroga su simili situazioni tornano in superficie antiche controversie. Prima di essere immortalato in una pagina manzoniana, Carneade era stato un filosofo scettico che allo scopo di negare ogni verità aveva evocato casi-limite di difficilissima soluzione: come nel caso di due persone che stanno annegando e che trovano nei pressi un solo pezzo di legno. La sua intenzione era sostenere che giustizia e ingiustizia si equivalgono, e che in fondo non è mai possibile esprimere un giudizio di valore.
Non è così, e nel diciassettesimo secolo già Francisco Suarez aveva ridimensionato la portata di quelle tesi sostenendo che nelle situazioni estreme l'ordine della giustizia viene meno e lascia il posto all'ordine della carità. Proprio in questo senso, però, va ricordato che la proprietà è il segno visibile, storicamente delineato e giuridicamente definito, del fatto che l'altro uomo merita rispetto. Perfino nell'emergenza del Paese caraibico oggi sotto le macerie, quanti si trovano sospesi tra la vita e la morte (e per questo si appropriano di ciò che è altrui, al fine di sopravvivere) in cuor loro sanno che al più presto dovranno impegnarsi a restituire quanto hanno sottratto.
D'altra parte anche nei campi di reclusione dell'ultima guerra c’era tra i prigionieri un minimo di vita economica (e le sigarette funzionavano da denaro), perché permaneva comunque la volontà di salvare gli elementi fondamentali delle relazioni interpersonali. Anche quello era un modo di continuare ad essere ancora persone: nonostante tutto. In questo senso va ricordata la lezione di Antonio Rosmini, che nella sua Filosofia del diritto scrisse che «far male altrui non vuol dir altro, se non ledere la libertà personale, ovvero la proprietà».
Non si è allora «duri di cuore» quando si chiede che ad Haiti si continui a negare legittimità al furto. Si tratta invece di capire che nelle situazioni estreme va fatto il possibile per uscirne al più presto: e che proprio nelle società sottratte alle condizioni minime del diritto, è indispensabile incamminarsi verso un ripristino di quell'ordine giuridico che è condizione di pace, rispetto, cooperazione, sviluppo. Se la protezione non sarà protetta, mancheranno le condizioni basilari per quell'impegno e quegli investimenti (anche solo di fatica e abnegazione) che sono indispensabili a far ripartire la società haitiana.
D'altra parte, lo statalismo è disastroso sul piano morale come su quello economico. Per questo - pur con tutta la sensibilità che il caso impone - va ribadito che gli haitiani torneranno a camminare solo se sapranno riscoprire, soprattutto nei loro gesti quotidiani, le buone ragioni del diritto.
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