Il saccheggio del Nord azzoppa il Paese

di Luca Ricolfi
Certo qualcuno potrà dire che il «sacco del Nord» non è affatto un saccheggio ma è un doveroso tributo ai territori meno fortunati. E qualcuno potrà persino sostenere che «si dovrebbe fare di più», come se il trasferimento forzoso di risorse da Nord a Sud fosse un imperativo etico, e l’uso dissennato di tali risorse non fosse un problema. Ognuno è libero di pensarla come desidera, quando si entra nel campo minato delle opinioni. Entrare nel campo delle opinioni è anche quello che, prima di chiudere questo lavoro, vorrei fare io stesso, con alcune riflessioni che la nostra radiografia può forse suggerire, ma che non sono certo le uniche che da essa si possono ricavare.
Intanto vorrei esplicitare quel che penso del futuro dell’Italia. A mio parere esiste uno scenario che è indesiderabile ma molto più probabile degli altri: lo chiamerò scenario A. Sotto tale scenario l’Italia è destinata a proseguire sul sentiero di declino che ha imboccato nell’ultimo decennio: la produttività ristagna, l’occupazione aumenta solo nella componente straniera, la pressione e l’evasione fiscale restano fra le più alte del mondo, i servizi pubblici permangono inefficienti, il welfare continua a privilegiare i padri e penalizzare i figli, carceri e centri di raccolta dei clandestini scoppiano, i consumi reali pro capite diminuiscono lentamente, le risorse per le infrastrutture scarseggiano. L’Italia, in altre parole, perde terreno non solo rispetto agli altri Paesi sviluppati (declino relativo), ma anche rispetto agli standard raggiunti da se stessa alla fine degli anni Novanta (declino assoluto). Lo scenario A mi pare altamente probabile innanzitutto perché, a leggere criticamente le statistiche, è semplicemente quel che sta già succedendo da almeno sette anni, e in secondo luogo perché l’immobilismo è la cifra di tutto il ceto politico, di destra e di sinistra. Vale per Berlusconi, che non ha mai onorato le due promesse fondamentali dei suoi governi, abbassare drasticamente le aliquote Irpef (al 23% e al 33%) e abbattere il tasso di criminalità. E vale per la sinistra, che dopo l’ingresso in Europa (1997) ha completamente smarrito la bussola, paralizzata dai propri conflitti interni e alla fine imbattibile in una sola arte, quella del non governo. Né di questo immobilismo ci si può stupire più di tanto: nel breve periodo, annunciare molto e fare poco è il comportamento elettoralmente più redditizio, perché minimizza le tensioni sociali ed evita i rischi delle decisioni impopolari. Tanto il conto non lo si paga mai. L’opinione pubblica è quella che è, e da quando siamo passati al bipolarismo è anche diventata salomonica: brontola per tutta la legislatura contro il governo in carica, e a fine legislatura, senza convinzione, si decide a provare «gli altri».
Di fronte a questo scenario, tanto triste quanto realistico, ne esiste un secondo - lo chiameremo scenario B - basato sull’ipotesi che nel corso di questa legislatura parta effettivamente il federalismo fiscale, con la serie di decreti delegati previsti dalla legge 42 del 2009, definitivamente approvata a maggio 2009. Solo che in questo caso lo scenario alternativo non è uno scenario unico, bensì uno spettro di scenari, che - per comodità espositiva - possiamo immaginare ordinati su un continuum, da quello più statico o «continuista», a quello più dinamico o innovativo.
Nello scenario B in versione continuista, che ritengo più probabile di quella innovativa, i ceti politici dei territori meno virtuosi - buona parte del Sud, ma anche parecchie realtà del Centro-nord - riescono ad aumentare le funzioni a essi delegate, e quindi ad attrarre maggiori risorse pubbliche, in cambio della promessa di usarle meglio in futuro. Il governo, in sostanza, accetta la diagnosi della Banca d’Italia secondo cui il Sud e il Nord del Paese non hanno problemi qualitativamente diversi, che richiedono politiche distinte, ma semplicemente un comune problema di crescita insufficiente. Come conseguenza di questa impostazione, la spesa pubblica complessiva aumenta un po’, le coperture vengono cercate con piccoli aumenti delle tasse locali e qualche iniziativa dell’Agenzia delle entrate, ad esempio misure per il rientro dei capitali parcheggiati all’estero, restrizioni nelle compensazioni Iva, controlli sulle pensioni di invalidità. Il risultato netto è un ulteriore aumento dell’interposizione pubblica - più tasse e più spesa - esattamente come avvenne trent’anni fa con il decentramento regionale. Questo scenario continuista è realistico perché conviene alla maggior parte del ceto politico, di destra e di sinistra, che non ha alcun interesse a razionalizzare la spesa: vorrebbe dire segare il ramo su cui si è seduti. Più che uno scenario veramente alternativo, lo scenario B nella versione continuista è una radicalizzazione dello scenario A, di mera prosecuzione del declino.
Ma è importante, perché segnala un rischio molto concreto: un federalismo mal fatto, pasticciato o di bandiera può essere peggio di nessuna riforma federalista, perché il suo unico effetto rilevante sarebbe di far lievitare la spesa pubblica.
Nello scenario B «innovativo», assai meno probabile, le cose vanno diversamente. Il ceto politico si rende conto che l’unica possibilità che ha l’Italia di fermare il declino è di rimettere in movimento le sue locomotive, ossia i territori più produttivi, e che i problemi del Nord e del Sud sembrano uguali (bassa crescita) ma sono intrinsecamente diversi. Se l’Italia non cresce e il Sud sta perdendo risorse, è perché l’interposizione pubblica ha soffocato i produttori, e quindi è rimasto ben poco da redistribuire. Detto in altre parole, quel che non va bene nel parassitismo dei territori più spreconi non è la sua evidente iniquità, ma il fatto che soffoca la crescita, fino al punto di bloccarla e trasformarla in decrescita, così distruggendo le basi stesse della redistribuzione. Un concetto spesso richiamato dal pensiero liberale, e di recente riproposto da Alessandro Vitale in un bel saggio sul parassitismo politico, che si chiude con questa splendida citazione di Vilfredo Pareto: «La spoliazione non incontra spesso una resistenza molto efficace da parte degli spogliati; ciò che finisce talvolta per arrestarla è la distruzione di ricchezza che ne consegue e che può portare la rovina del paese. La storia ci insegna che più di una volta la spoliazione ha finito con l’uccidere la gallina dalle uova d’oro» (Pareto, 1902).
Noi a quel punto siamo arrivati. I territori che vivono di trasferimenti hanno finito per soffocare i territori che producono. Il problema, però, è che per uscirne avremmo bisogno di una classe politica coraggiosa, capace di prendere atto del nocciolo del problema. E il nocciolo del problema, come abbiamo cercato di mostrare con la nostra ricostruzione, è che il divario Nord-Sud è solo un divario di produzione, non di consumi e di tenore di vita. Detto brutalmente: il Mezzogiorno non ha alcun interesse immediato a cambiare uno stato di cose che, finora, gli ha permesso di vivere largamente al di sopra dei propri mezzi. Il vittimismo del Mezzogiorno è perfettamente giustificato se guardiamo alla prima parte della storia d’Italia, quando la politica del Regno - attenta ai soli interessi del Nord - ha creato la questione meridionale, generando un divario che nel 1861 probabilmente non c’era, e se c’era era di proporzioni modeste, in ogni caso molto minori di quelle attuali. Ma quel medesimo vittimismo è largamente fuori luogo se guardiamo alla storia dell’Italia repubblicana, nella quale il Mezzogiorno non solo ha in parte risalito la china (specie fra il 1951 e il 1975), ma è diventato il principale beneficiario dell’immenso apparato burocratico- clientelare che ha spento le energie produttive del Paese. Ecco perché considero altamente improbabile lo scenario innovativo. Anche immaginando un «federalismo lento», che desse ai territori che ne hanno bisogno il tempo di rimettersi in carreggiata, le resistenze e le tensioni sarebbero fortissime. Non si può semplicemente chiudere i rubinetti della spesa, far pagare le tasse agli evasori, commissariare le amministrazioni che non funzionano. Avremmo le rivolte nelle piazze, il crollo dell’occupazione, la recrudescenza della criminalità organizzata (che spesso preferisce i politici locali ai commissari governativi).

Il vero problema di una classe politica che avesse la volontà di fermare il declino è di convincere l’opinione pubblica che il cambiamento è necessario, perché è l’unica alternativa allo scenario A, quello di un lento ma inesorabile arretramento del nostro tenore di vita.

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