Saddam condannato a morte: sarà impiccato

Comminata la pena capitale anche a due dei sette coimputati: il fratellastro Al Tikriti e il presidente della Corte rivoluzionaria Al Bander

Fausto Biloslavo

«La Corte condanna Saddam Hussein all’impiccagione fino a che morte non sopravvenga, per crimini contro l’umanità», sentenzia l’inflessibile Abdul Rahman, il presidente curdo del tribunale speciale iracheno che ha giudicato l’ex raìs. Saddam grida, agita l’indice accusatore, fulmina con lo sguardo i giudici, ripete «Allah è grande», ma la sentenza è emessa. In Italia sono le 10 del mattino di una domenica qualunque, ma per la star della Norimberga irachena è scoccata l’ora di rendere conto dei crimini contro il suo popolo.
Il processo, iniziato il 19 ottobre dello scorso anno, lo ha condannato alla pena capitale per la deportazione di 399 uomini, donne e bambini dalla cittadina sciita di Dujail, 60 km a nord di Bagdad, nel lontano 1982. Molti vennero brutalmente torturati, e 148 uccisi in nome di una spietata rappresaglia per un attentato contro il raìs al suo arrivo a Dujail, che non lo aveva neppure scalfito.
Il giorno del giudizio è durato una quindicina di minuti per Saddam e i suoi sette coimputati, ma fin dalla prime battute l’ex dittatore ha cominciato a dare battaglia. Quando è stato accompagnato in aula si è accomodato nel banco degli imputati, in prima fila, e alla richiesta del giudice di alzarsi ha fatto finta di niente. Le guardie lo hanno fatto alzare con la forza, e Saddam ha protestato con rabbia: «Non torcetemi le braccia». Completo scuro impeccabile, camicia bianca e fazzolettino nel taschino, l’ex raìs si è presentato con il Corano in mano, un taglio di capelli perfetto e la barba brizzolata. Solo i denti apparivano malandati quando urlava rivolto alla Corte.
La tensione era palpabile nel momento in cui il presidente del tribunale ha iniziato a leggere le sentenze cominciando dalle pene minori. La prima è stata l’assoluzione di un oscuro funzionario del partito Baath, al potere nell’era di Saddam, originario di Dujail, il villaggio della strage. Poi sono cominciate a fioccare le condanne a 15 anni di carcere ad altri tre esponenti locali del partito: Abdallah Khaden Ruweid, suo figlio Mizhar Abdallah Ruweid e Ali Daeh Ali. Di seguito il giudice ha sentenziato l’ergastolo all’ex vicepresidente iracheno Taha Yassin Ramadan, per il quale il pubblico ministero aveva chiesto la pena capitale. Quando è stata letta la condanna a morte per gli ultimi due coimputati, Barzan al Tikriti, ex capo dei servizi segreti, e Hawad Amad al Bandar, ex capo del Tribunale rivoluzionario, Saddam ha capito che non aveva scampo.
Mentre il presidente della Corte scandiva le parole decretando l’impiccagione per l’ex raìs, e non la fucilazione come lui aveva chiesto, Saddam si è scatenato. «Lunga vita all’Irak, lunga vita al popolo iracheno. Abbasso i traditori», ha esordito gridando. Per protestare contro la sentenza ha ripetuto più volte «Allah akbar» (Dio è grande) agitando il Corano. Poi, puntando l’indice contro la Corte, ha gridato: «Vergognatevi, voi non siete iracheni, siete dei criminali. Andate all’inferno con i vostri articoli e clausole. Vergogna agli invasori». Forse voleva leggere anche un verso del Corano, ma le guardie lo hanno trascinato via. Visibilmente tremante, Saddam è riuscito a gridare ancora: «Allah è più grande degli occupanti. Io non sono sconfitto».
Più tardi il collegio difensivo, che ha definito il processo «una farsa motivata politicamente», ha reso nota un’ulteriore dichiarazione di Saddam, preparata in anticipo, in cui chiede alla sua gente di «perdonare e di non vendicarsi con i Paesi invasori e i loro popoli».
Saddam ha automaticamente diritto all’appello, come gli altri due coimputati condannati a morte. Si tratta di Barzan Ibrahim al Tikriti, uno dei tre fratellastri del raìs. Ex capo dei servizi segreti del regime, ha personalmente partecipato a torture nei confronti dei prigionieri sciiti di Dujail. Con il capo coperto da una kefya bianca e rossa, ha esclamato: «Questo giudizio era stato scritto in anticipo». Awad Hamed al Bander, l’altro condannato a morte, è poco conosciuto dai media internazionali, ma temuto dagli iracheni. Ai tempi del regime diventò presidente della Corte rivoluzionaria, che fece giustiziare gran parte dei 148 sciiti deportati da Dujail. Fin dalla prima udienza del processo ha avuto l’«onore» di sedere accanto a Saddam.

Ieri ha gridato «Allah è grande» e «traditori» rivolto ai giudici. L’ex vicepresidente iracheno Ramadan, condannato all’ergastolo, è scampato alla pena capitale, ma difficilmente sopravviverà al cancro che lo sta divorando.

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