Saddam: «Non ho paura della pena di morte»

I drammatici racconti dei testimoni scampati al massacro di Dujail, dove furono uccise 143 persone

Fausto Biloslavo

«Non ho paura di essere giustiziato» ha dichiarato ieri Saddam Hussein alla terza udienza del processo per i crimini compiuti durante il suo regime. L’ex dittatore ha continuato a utilizzare l’aula del tribunale come un teatro per la sua propaganda, ma questa volta sono comparsi i primi testimoni scampati al massacro di Dujail. Nel luglio del 1982 centinaia di abitanti di questa cittadina a nord di Bagdad furono rastrellati dagli sgherri di Saddam. Si tratta del primo capo d’accusa contro Saddam e sette suoi gerarchi. Centoquarantré cittadini di Dujail non tornarono più a casa, e quasi tutti i prigionieri vennero picchiati, torturati e costretti a detenzioni disumane.
Poco dopo l’inizio dell’udienza, i legali della difesa hanno abbandonato l’aula per protesta contro la decisione della Corte di non far intervenire l’ex ministro della Giustizia Usa, Ramsey Clark, e il suo collega del Qatar Najeeb al-Nauimi. L’uscita dall’aula degli avvocati ha scatenato la protesta di Saddam, che si è messo a gridare «Lunga vita all’Irak». Alla fine il presidente della Corte, Rizgar Mohammed Amin, ha concesso ai legali «internazionali» di Saddam di dire la loro. Clark ha sottolineato che il processo non può avere luogo se ai difensori non viene garantita un’adeguata sicurezza, dato che già due di loro sono stati uccisi. Al-Nauimi, ex ministro della Giustizia del Qatar, si è lanciato in una filippica sull’illegittimità della Corte.
Il processo è entrato nel vivo quando Ahmed Hassan Mohammed ha cominciato a testimoniare. Nel 1982 aveva 15 anni, e gli sgherri di Saddam lo portarono via assieme a tutta la famiglia come rappresaglia per il fallito attentato al raìs nella cittadina di Dujail.
«Lo giuro in nome di Allah: ho visto una specie di tritatutto con del sangue che colava e resti di capigliature umane», ha raccontato il testimone, che era stato portato con centinaia di persone in una delle centrali dei servizi segreti a Bagdad. «Mio fratello è stato sottoposto all’elettrochoc, mentre nostro padre, che aveva 77 anni, era costretto a guardare. A un uomo hanno sparato nei piedi, ad altri prigionieri sono state spezzate le ossa della braccia e delle gambe. Ci dicevano: perché non confessate? Tanto verrete liquidati lo stesso», ha denunciato il coraggioso testimone, che si è fatto riprendere dalle telecamere. Hassan ha snocciolato luoghi, date e nomi di chi è stato brutalmente eliminato. Inoltre ha raccontato di aver visto Saddam colpire con un portacenere un ragazzino terrorizzato a Dujail. Il fratellastro del raìs, Ibrahim al Tikriti, capo dei servizi segreti interni, ha invece organizzato la rappresaglia, e avrebbe ucciso con le sue mani un bambino di 14 anni. «Al Tikriti indossava dei jeans e degli stivali rossi da cowboy ­ ha sostenuto il testimone ­. Imbracciava un fucile di precisione e girava per le strade di Dujail a dare ordini».
Hassan è stato più volte interrotto da Al Tikriti, che lo ha mandato all’inferno, e da Saddam, che gli ha consigliato cure psichiatriche, ma non si è mai lasciato intimorire. «Alle donne sono state fatte cose innominabili. Qualcuna ha partorito in carcere e il neonato è morto d’inedia», ha ricordato il testimone, che è stato quattro anni in carcere senza non aver fatto nulla. Imputati e difensori hanno cercato di smontare il dettagliato racconto sostenendo che «è impossibile ricordare nomi e date così precisi a tanti anni di distanza».
Dopo Hassan ha deposto un secondo testimone, che però aveva solo dieci anni nel 1982, raccontando come alla rappresaglia abbia partecipato pure Taha Yassin Ramadan, ex vicepresidente iracheno. Ovviamente l’imputato ha smentito di essersi recato a Dujail.


Verso la fine dell’udienza Saddam ha lanciato l’ennesima sfida: «Non ho paura della condanna a morte, che vale meno delle scarpe di un iracheno. Io non parlo per me, ma per il mio Paese, che ho servito per trent’anni». E ha definito «illegale» «il tribunale creato dagli americani».

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