Safin, addio al tennis con un occhio nero

Poteva essere il Numero Uno, è rimasto talento e sregolatezza. "A fine anno chiudo": l’annuncio dopo una rissa a Mosca. il padre beffò i funzionari dell'anagrafe sovietica. ignoravano la Rivoluzione francese

Safin, addio al tennis con un occhio nero

Federer? L’avrebbe battuto, anzi una volta l’ha fatto in Australia e quando Roger era il Numero Uno. Nadal? Non si sarebbe mai visto lì in alto, perché lui l’avrebbe preso a pallate. Murray? Djokovic? Chi? Diciamolo: Marat Safin poteva essere questo e molto altro, se solo avesse avuto voglia di fare il tennista. Che per un tennista è un particolare da non sottovalutare.

E invece Marat, dopo aver esordito nella Hopman Cup - il torneo esibizione a squadre che lancia la stagione australe e in cui ha poi battuto l’Italia di Bolelli e Pennetta in coppia con la sorella Dinara -, ha fatto sapere di non essere più interessato, che questa insomma sarà la sua ultima stagione. Ma soprattutto, secondo personaggio, l’ha fatto con un vistoso occhio nero, «regalo» di una rissa nella quale è stato coinvolto a Mosca: «Ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma in fondo sono sopravvissuto, no?». Praticamente come spesso gli è capitato in questi primi quasi 29 anni.

Perché lui, il conquistatore di tutte le fan, certo, avrebbe potuto essere Numero Uno, Mito. Ma l’aveva già detto che il sacrificio non era cosa per lui: «Si vive una volta sola, perché bisogna per forza faticare?». Infatti. E allora se il talento lo ha portato a vincere gli UsOpen nel 2000 e quelli d’Australia nel 2005, il resto è stato un alternarsi di colpi magici e racchette buttate via, perché in fondo quel giorno c’era altro da fare o altro a cui pensare. Come ad esempio quando vinse il suo quattrocentesimo incontro da professionista ma non esultò per l’ultimo punto: era andato al cambio campo, non si era accorto semplicemente che il match fosse finito.

Questo insomma è Marat Mihailovic Safin e non poteva essere che così, visto che il padre riuscì a ingannare con raffinatezza i fiscalissimi funzionari dell’anagrafe sovietica, scavalcando la censura antioccidentale e confidando sulla loro ignoranza: loro, infatti, Jean Paul Marat e la Rivoluzione Francese non li conoscevano. Così lui, nato già con la passione per la cultura che coltiva ancora leggendo grandi classici, ha affinato poi quella per le belle donne, le Safinette insomma, mettendoci nel mezzo il talento per il tennis fino ad arrivare ad essere sì, ma per poco, il numero 1 del mondo: «Nel 2000 tutti mi volevano, tutti mi adoravano. E io mi dicevo: “Nessuno ti può battere”». Infatti: poteva farlo solo lui.

Così ecco l’ottovolante Safin, fatto di infortuni e risalite ma anche di belle serate, in Florida dove ha casa e dove si dice che il viavai sia frequente, nel resto del mondo tra un servizio e una palla in rete. Un giorno disse: «Ci sono stati momenti della mia carriera in cui ero costretto a guardare il tennis in tv e mi dicevo: "Ehi, dovresti essere lì in campo, questo match lo vinceresti senza problemi". Poi ho affittato una macchina, ho preso una mappa e delle canne da pesca e sono andato al parco di Yosemite a caccia di trote: lì, mentre pescavo e cucinavo, ho capito che sono quel che sono: io sono nato a Mosca, dove tutto è bianco o nero, non potevo certo cambiare la mia personalità».

Inutile dunque impegnarsi, l’uomo che rinunciò alla finale di coppa Davis perché

doveva scalare l’Himalaya ora dice basta, quest’anno è l’ultimo, poi il tennis non sarà più un impiccio: «Il futuro? Sono discorsi che riguardano me: non ho nessuna voglia di parlare di miei progetti». Perché, Marat, ne hai?

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