Il saggio Quando essere libertini era una filosofia

Se l’immoralista, inteso come non bacchettone, è qualcuno che dialoga con le parti vive della morale e ne rifiuta la sclerotizzazione, il libertino è spesso più moralista dei moralisti: solo che la sua è una morale al contrario. Ben lo si capisce leggendo il saggio di Didier Foucault Storia del libertinaggio e dei libertini (Salerno, pagg. 498, euro 25). Foucault insegna storia moderna all’Università di Tolosa e ha ricostruito le vicende dei «teorici» dell’antimorale a partire dalla goliardia medievale per arrivare sino al secolo dei Lumi, quando il libertinaggio divenne vera e propria teorizzazione dottrinaria (basti pensare alla maniacale prescrittività dei libri di De Sade). Nel mezzo, tra la bonaria rivolta dei clerici vagantes del Medioevo e l’ossessiva ripetitività erotica del «Divin Marchese» o dell’autore di Thérèse philosophe, c’è l’epoca d’oro della scrittura erotica come mezzo di libertà. Ed è proprio su questo periodo esplosivo innescato dalla licenziosità del rinascimento italiano e poi diffusosi in tutta Europa sull’onda della stampa di testi come quelli dell’Aretino che Foucault si concentra. E la sua bravura consiste soprattutto nel delineare i tratti di un movimento culturale a partire dai singoli episodi. Oltre che nello sfatare alcuni luoghi comuni pervicaci soprattutto nel lettore italiano. Se, infatti, quella dei libertini fu una battaglia contro la cappa del conformismo religioso, va detto che fu una battaglia combattuta soprattutto contro i protestanti, molto più rigidi e meno pronti al perdono di quanto fossero i cattolici.

Per rendersene conto bastano le illuminanti pagine che nel saggio sono dedicate alla fuga a Roma di Cristina, regina di Svezia. Perché se il motto dei libertini fu per certi versi «né Roma né Ginevra!», fu molto più spesso Ginevra a risentirsi.

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