L’assessore al Lavoro del Comune, Cristina Tajani ha annunciato ieri, parlandone con i sindacati nel corso del suo primo incontro istituzionale, la misura con cui intende lasciare il segno: un salario di intermittenza. «Un reddito che permetta alle vittime della crisi e ai giovani precari- ha spiegato a “Repubblica” - di contare su un’entrata». L’assessore, che arriva dall’ufficio studi Cgil, premette che il tutto va studiato, ma anticipa a grandi linee il contenuto del sussidio: «Non ci sarà discriminazione per età o settore lavorativo», assicura, indicando nei 150mila iscritti alle liste di mobilità la platea dei beneficiari.
Ma i problemi sono diversi, di diverso tipo. Il primo lo si può intuire in modo immediato: quanto costa un sussidio del genere? Dove si prendono i soldi? Ma anche risolto lo scoglio della copertura resta il dubbio ulteriore, l’utilità: una misura del genere è utile al suo scopo? È un modo efficiente di impiegare le risorse?
Il salario minimo garantito è considerato inutile o controproducente da molti economisti, di scuola liberale ma non solo. Sia perché presuppone uno Stato invadente che prende tanto dai cittadini (in tasse) per finanziare i suoi interventi, sia perché spesso questi interventi non risolvono nulla. Anzi, spesso sono dannosi.
Partiamo dalla copertura: è l’ex assessore Maurizio Beretta a fare il calcolo: «Sono 6mila euro per 150mila beneficiari l’anno: una cifra da capogiro, 900 milioni. E se ipotizzassero anche solo una graduatoria di uno su 10 ce ne vorrebbero 90». «È come per i mezzi pubblici gratis, che costerebbero 32 milioni. Sono proclami, io ragiono su atti e cose concrete. E dove li prendono questi soldi? Dalle tasse? Il problema del lavoro esiste - osserva Beretta - ma va affrontato in modo intelligente». «Oltretutto - conclude - si sa che misure del genere creano assistenzialismo e favoriscono il lavoro nero».
Questo meccanismo distorsivo, in effetti, è stato sperimentato anche altrove: le forme assistenziali hanno un effetto che disincentiva la ricerca di nuova occupazione o l’iniziativa economica privata. E determina inerzia. Questa «distorsione assistenziale», i sindacati la conoscono bene, e la temono non poco. La Cisl, per esempio, con il segretario regionale Gigi Petteni non sembra affatto entusiasta: il problema - spiega è «accompagnare dalle tutele al posto di lavoro». «Noi - scandisce - non vogliamo vivere di ammortizzatori o mobilità. Abbiamo bisogno di politiche attive, di un piano straordinario per il lavoro. Se costruiamo un modello troppo assistenziale non va bene». L’impressione è che la misura arrivi in ritardo di un paio d’anni: «Noi - conferma Petteni - abbiamo rivendicato ammortizzatori per tutti, e il problema dei giovani c’è. Nel momento più drammatico della crisi era garantire tutti, ora il problema è ripartire. I paracadute non possono diventare strutturali».
Ma, sorpresa, anche la Cgil pare scettica, o perlomeno molto cauta. É il segretario milanese Onorio Rosati a spiegare la posizione del sindacato di sinistra, dal cui centro studi l’assessore proviene («Ci intenderemo? Non è necessariamente vero - dice non a caso - ora lei rappresenta l’istituzione»). «Una misura del genere - avverte - ci va bene se è selettiva e limitata. Se parliamo di importi limitati e se non è rivolta a 360°».
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