nostro inviato a Torino
Chi ha successo ha sempre ragione, e solo chi è in malafede non vede i risultati ottenuti da Carlo Petrini e dal movimento dello Slow Food. Ma è anche giusto ragionare pure su quello che non ha funzionato o, comunque, può essere migliorato. Di sicuro questa edizione del Salone del Gusto, che ogni due anni profuma il Lingotto di bontà (e di fatica), ha segnato un successo senza pari. Ogni giornata (oggi la quinta e conclusiva con larrivederci al 2008, con il 2007 dedicato alle manifestazioni di Slow Fish a Genova e di Cheese a Bra) ha attirato in quello che era lo stabilimento delle auto Fiat una media di 35mila persone paganti (20 euro il prezzo intero).
E per come è (ri)strutturato il Lingotto, è stato facile distinguere come esistano due Italie non solo in Parlamento ma anche a tavola. A una estremità il meglio consumistico a livello shopping center, multinazionali e supermarket, allaltra il top della tipicità più o meno bio-consapevole, con i presidi animati dallo stesso Slow Food, gli artigiani e i bottegai con le loro bancarelle in perfetto stile mercato rionale, gli espositori stranieri (che buone le offerte dalla Gran Bretagna!) e i colossi dellindustria che, pur fatturando cifre milionarie, hanno fatto loro la filosofia di Carlo Petrini per consumi biosostenibili. E così ecco ad esempio i superstand di Lavazza (con Ferran Adrià quasi padrone di casa) e Lurisia (che non è più solo acqua, per via di due birre streganti), Parmigiano (con lo chef Massimo Bottura a fare da ideale contraltare al genio catalano), San Daniele (lanti-Parma del prosciutto) e De Cecco, pronta a lanciare una pasta con un particolarissimo grano «politicamente perfetto».
A girare, sgomitando tra i corridoi, a tratti veniva voglia di alzare bandiera bianca e di uscire allaria aperta. La stessa ressa del sabato di massa in un ipermercato, solo con una chiara etichetta politica che però è sbagliato prendere in vera considerazione. Al di là dei soliti furbi che si mettono in direzione del vento, è indubbio che la terra, intesa come pianeta, ha il fiato corto e va curata. E qui si apre il capitolo legato a Terra Madre, edizione seconda. Dal 2004 a oggi, le cosiddette comunità del cibo non solo sono aumentate ma sono state avvicinate da un migliaio di cuochi invitati espressamente per andare oltre la mera lezione di alta cucina. E così ecco i vari Andoni (basco), Peskias (greco) e Scabin (piemontese), per dire i primi tre che vengono in mente, aggirarsi per lOval, la struttura attigua, cara agli italiani per le imprese olimpiche del pattinatore Enrico Fabris.
In un palazzetto votato allo scambio di conoscenze tra studiosi, premi Nobel e contadini, era evidente un secondo contrasto. Il salone sembra ormai il supermercato «di sinistra», dove tutti possono assaggiare (quasi sempre pagando) e poi acquistare prodotti in genere solo sognati. Lautentica filosofia dello Slow Food adesso è tutta in Terra Madre, tanto che Petrini, come un moderno pifferaio di Hamelin, era spettacolare nel suo muoversi da un punto allaltro trascinandosi dietro le più alte cariche dello Stato, a iniziare giovedì dal presidente Napolitano. E quante bacchettate ai vari ministri perché non si limitino ai buoni propositi, agli slogan. Ieri, ad esempio, il ministro della Sanità, Livia Turco, ha annunciato un tavolo tecnico tra ministero e Slow Food per migliorare la qualità del cibo offerto negli ospedali. Ma è anche vero che se le osterie, che sono la cellula da cui tutto partì oltre ventanni fa, dovessero usare solo i prodotti dei presidi (291 sparsi in tutto il mondo) i prezzi salirebbero alle stelle, come i ristoranti foie gras e aragoste.
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