Coronavirus

Covid, come si diffonde il virus nelle case di cura?

A questo quesito hanno cercato di rispondere i ricercatori dell'Università di Cambridge e del Wellcome Sanger Institute

Covid, come si diffonde il virus nelle case di cura?

Le case di cura sono purtroppo note per essere ambienti ad alto rischio di sviluppare focolai di Covid, ciò a causa di una combinazione di fattori. Da una parte, infatti, vi è la vulnerabilità dei residenti che spesso sono affetti da malattie cardiache, respiratorie e da diabete. Dall'altra non deve essere sottovalutato l'ambiente stesso, caratterizzato da spazi comuni condivisi, ovvero luoghi chiusi dove i contatti con il personale e con i visitatori sono frequenti.

Gli scienziati dell'Università di Cambridge e del Wellcome Sanger Institute, utilizzando una combinazione di sequenziamento del genoma e informazioni epidemiologiche dettagliate, hanno cercato di capire i meccanismi di diffusione del coronavirus nelle case di cura. La ricerca è stata pubblicata su "eLife".

Il Covid è un virus a RNA e, come tale, il suo codice genetico è soggetto a errori ogni volta che si replica. Attualmente si ritiene che il patogeno muti a una velocità di 2,5 nucleotidi al mese. Il sequenziamento del suo codice genetico consente agli studiosi di comprendere meglio la sua biologia e trasmissione. Nello specifico, i ricercatori sono in grado di creare "alberi genealogici", conosciuti come "alberi filogenetici", che mostrano la modalità con cui i campioni si relazionano fra loro.

Gli esperti di Cambridge, che hanno aperto la strada all'uso del sequenziamento del genoma al fine di tracciare focolai e reti di trasmissione negli ospedali e in varie strutture sanitarie, hanno analizzato campioni raccolti da 6.600 pazienti tra il 26 febbraio e il 10 maggio 2020, tutti testati presso il laboratorio Public Health England (PHE) di Cambridge. Di questi 1.167 (18%) erano residenti in case di cura, la maggior parte situate nell'Est dell'Inghilterra. L'età media dei residenti era di 86 anni.

Dall'indagine è emerso che, rispetto agli ospiti di case di cura ricoverati in ospedale con Covid, i soggetti delle case di cura ospedalizzate avevano meno possibilità di finire in terapia intensiva (una percentuale inferiore del 7%) e maggiori probabilità di morire (47%). Gli scienziati hanno altresì esplorato i collegamenti tra case di cura e nosocomi. Il 68% dei residenti in una casa di cura è stato ricoverato in ospedale durante il periodo dello studio, con il 57% affetto da Covid. Di questi, il 6% aveva un'infezione sospetta acquisita nel nosocomio e il 33% è stato dimesso entro 7 giorni da un test positivo.

Esaminando le sequenze virali, gli studiosi hanno scoperto che per molte delle case di cura con il maggior numero delle diagnosi, tutti i casi erano strettamente raggruppati su un albero filogenetico con genomi identici o con solo una differenza di coppia di basi. Ciò, inoltre, risultava coerente con un singolo focolaio diffuso all'interno di una casa di cura. «L'utilizzo di questa tecnica di "sorveglianza genomica" - ha affermato il dottor William Hamilton -può aiutare le istituzioni sanitarie a comprendere meglio le reti di trasmissione che consentono la diffusione del coronavirus».

Il numero assoluto di casi di Covid diagnosticati nei residenti delle case di cura è diminuito più lentamente ad aprile, rispetto ai soggetti ospiti di altre strutture. Secondo lo scienziato Gerry Tonkin-Hill, i dati suggeriscono che la trasmissione del virus nelle case di cura si sarebbe dimostrato più resistente alle misure di blocco. Il team, tuttavia, non ha trovato nuovi lignaggi virali al di fuori del Regno Unito.

Ciò potrebbe essere un riflesso positivo delle restrizioni sui viaggi durante la prima ondata pandemica.

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