Milano - Il Maestro è una fragile procellana bianca, pallida come i drappi che quasi lo avvolgono nella bara di legno biondo, lasciando però intravedere, sul risvolto della giacca, il distintivo della brigata partigiana Giustizia e libertà, alla quale un Enzo Biagi ventitreenne aveva aderito, insofferente all’orbace e alle adunate in divisa. Nella camera ardente di via Quadronno 7, a due passi da dove Biagi abitava, in quella Milano bene che è anche davvero perbene, perché priva di ostentazioni, si è concluso il più lungo articolo del decano del giornalismo italiano, spentosi poco dopo le 8 di ieri mattina. Un articolo sempre brillante e mai noioso. Da leggere e da invidiare. Un articolo durato una vita.
«Papà ha programmato tutto come sempre, anche per noi. Ci ha fatto dormire per qualche ora, poi si è addormentato sereno», racconta commossa la figlia Bice, strappando un sorriso al dolore. «Ho tanto bisogno di voi - ricorda - sono state le sue ultime parole». Alle quali lei ha ribattuto: «Sapessi noi quanto di te». E a chi le chiede l’ovvio che si chiede sempre, in queste occasioni, cioè un ricordo, lei risponde con voce ferma e orgogliosa: «Mi rendo conto che voi tutti lo ricordiate come Enzo Biagi, ma per me è mia sorella Carla il ricordo è soltanto quello di nostro padre».
Piangono, appoggiate a un muro, con la maggiore fragilità degli adolescenti, le giovanissime nipoti. Ma faticano a trattenere le lacrime anche uomini grandi e grossi, marcantoni come Giancarlo Aneri, l’imprenditore veneto promotore del premio “È giornalismo”, fondato insieme con la triade dei grandi vecchi della carta stampata: Indro Montanelli, Giorgio Bocca e, appunto, Enzo Biagi. «Premio che tuttavia continuerà, proprio in omaggio a entrambi, in omaggio a Enzo», assicura Aneri, che dell’amico scomparso, quasi un fratello maggiore, se non un padre, ricorda soprattutto la fondamentale qualità di «uomo buono, che con me si vantava sempre soltanto di una cosa: di non essere mai andato a letto una sola volta col rimorso di aver fatto del male a qualcuno».
Non ha lacrime, ma è una maschera terrea il volto di Paolo Mieli, direttore del Corriere della sera, che ricorda come «dall’inizio degli anni Novanta, quando per la prima volta sono diventato direttore in via Solferino, Biagi mi ha sempre tenuto una mano sulla spalla. Una mano che mai, neanche una volta, mi ha fatto pesare. Lui era, anzi lo è ancora, il capofamiglia della nostra grande “famiglia” e quando veniva alle riunioni era lui il naturale capotavola, come quando ci si siede a mangiare».
Mano a mano che le ore scorrono - senza che peraltro la Milano istituzionale senta il bisogno di affrettarsi a rendere omaggio allo scomparso (sindaco e presidente della Provincia arriveranno con calma, soltanto dopo le ore 15) - è un infittirsi della coda, davanti alla camera ardente. Passano volti di gente comune, piccolo esercito dagli occhi arrossati, armato di una lacrima e di un fiore.
E passano, ovviamente, gli amici di una vita. Amici annientati come Cesare Rimini, grande avvocato a cui il dolore ha di fatto tolto di bocca le parole e che riesce a dire soltanto come Biagi sia stato per lui «l’amico più grande». Amici stroncati come Ottavio Missoni, che mescolando l’italiano e il suo dialetto giuliano può appena spiccicare: «Ho perso un amico, cossa te vol che te diga?». Amici riconoscenti come Emilio Fede, che ricorda il suo primo direttore: «È lui che mi ha assunto in Rai, è lui che mi ha dato la vita».
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