SALVATE LA COMPAGNIA BRAVO

Montagne fasciate dalla nebbia, pioggia continua che inzuppa tutto. Uomini che marciano per miglia e miglia in cerca di un nemico che non si trova mai. Eppure anche se è tutto bagnato manca sempre l’acqua. Perché se il fiume è vicino, poche centinaia di metri più in basso, non si riesce a raggiungerlo. L’erba è alta più di un uomo e taglia come una lama. E di usare i sentieri non se ne parla. Lì tutto può essere una trappola. Ecco che allora i marines possono impiegare tempi infiniti per percorrere spazi piccolissimi, mentre le sanguisughe si attaccano addosso.
Poi dopo ore e ore di pattuglia, e a volte le ore possono diventare giorni, si torna alla base. Appesantiti da trenta chili di attrezzatura strisciano sfiniti dentro un perimetro spoglio in cima a qualche cucuzzolo. Lì ci sono le buche nel terreno che ormai considerano la propria casa, attorno filo spinato e spazzatura: tutto il resto è stato fatto saltare con l’esplosivo C4. E il nemico? I soldati di Ho Chi Minh non compaiono quasi mai, sono fantasmi lontani, che uccidono sfuggenti. Il vero nemico è il silenzio insondabile, primordiale.
È questo lo sfondo di Matterhorn, il romanzo di Karl Marlantes che arriva oggi in Italia (Rizzoli, pagg. 678, euro 25) e che racconta la sofferenza delle truppe americane nella disperata battaglia per controllare i territori di frontiera tra Laos, Vietnam del Nord e Vietnam del Sud (siamo in un limbo temporale collocabile tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70). E quanto quella guerra sia rimasta nel cuore degli americani lo dimostra il successo di vendite di questo libro-capolavoro negli Stati Uniti: più di 300mila copie e 17 settimane di permanenza nella classifica del New York Times. Ma a fare la differenza tra il libro di Marlantes - che in Indocina c’è stato davvero e ha ricevuto anche una Navy Cross per «atti di straordinario eroismo in combattimento» - e tanti altri romanzi e saggi sulla guerra nel Vietnam non è il successo tra i lettori, poiché il genere da sempre tira. Piuttosto l’evidenza di una qualità letteraria superiore: sempre il New York Times l’ha nominato miglior libro del 2010.
Quella raccontata in Matterhorn è una piccola Iliade monsonica, dove un giovane tenente, Mellas, impara a sue spese cosa sia la guerra quando è continuazione della politica, quando il conflitto diventa qualcosa che non si può vincere, ma semplicemente un’appendice delle necessita mediatiche che servono a mantenere il consenso di un presidente. Sì, perché Matterhorn, nella sua ambientazione di verdi distese pluviali sconfinate, di afa, di trappole esplosive e di morte è notevole soprattutto nel suo essere una metafora del potere. L’incubo per i soldati non è tanto il fronte, ma tutto quello che il mondo riversa sul fronte. Mellas e i suoi, la compagnia “Bravo” del 24° Marines, vengono mandati a presidiare una collina che deve ospitare una batteria d’artiglieria: il Matterhorn appunto. Un tenente colonnello che vuole farsi promuovere - non sarebbe un cattivo diavolo se non bevesse troppo - gliela fa prima fortificare e poi abbandonare per andare a caccia di nemici che non esistono. Quando i vietnamiti del NVA la occupano sfruttando i bunker costruiti dagli stessi americani, ai capoccia del reggimento viene in mente di rioccuparla. Per farlo si utilizza di nuovo la “Bravo”, anche se i suoi effettivi sono decimati e minati all’interno dai conflitti razziali. E non perché i comandanti siano impreparati, semplicemente perché ragionano sulle statistiche, sulle notizie che passeranno al telegiornale, perché a ogni passaggio della catena gerarchica, per il proprio tornaconto, ciascuno modifica a proprio vantaggio la verità dei fatti.
Alla fine i Marines vincono lo stesso, ma con tanti troppi morti. E solo perché qualcuno decide che l’unico modo di cavarsela è giocare il tutto per tutto, correndo allo scoperto anche se gli ordini non hanno senso: «Corse perché il destino l’aveva messo in una posizione di responsabilità... corse perché amava i suoi amici e non c’era altro modo di mettere fine a quella follia». Insomma, il cuore del libro è la presa d’atto che dall’ingranaggio del potere, e dai suoi errori, non c’è salvezza se non l’accettazione: «Non se la sarebbero svignati dalla giungla per salvarsi, perché non c’era nulla che meritasse essere salvato... Morire così era meglio, perché vivere così era meglio».

Insomma, Marlantes scava nel Vietnam sino a farne zampillare un’epica del dolore che è il solo balsamo che i reduci possono accettare. Sino a ora, tra esaltazione e accuse alla più americana delle guerre, non l’aveva fatto nessuno, non così, non con questa consapevolezza.

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