Aveva deciso già da bambino quale sarebbe stato il suo futuro. E quando, dopo aver fatto il servizio di leva, aveva toccato il mondo delle forze armate, la scelta divenne semplice: la sicurezza sarebbe stata la sua ragione di vita. Così, Salvatore Stefio, entra a far parte del mondo dei contractors , o guardie private, professione rischiosa e rispettata in tutto il mondo occidentale, un po' meno in Italia, dove la sinistra radical chic è abituata a nutrirsi di dietrologia. «La prima esperienza è stata in Croazia tra il '91 e il '92, durante la guerra di secessione racconta Salvatore, oggi 45enne -. Scortavo i convogli umanitari. Ma l'esperienza più importante è stata in Nigeria: tre anni come operatore alla sicurezza negli impianti di estrazione di petrolio e gas». È proprio grazie a questa professione che conoscerà Fabrizio Quattrocchi, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino con quali condividerà una delle più dure e drammatiche esperienze della sua vita.
«Nel 2004 una società Usa stipulò un accordo con l'agenzia di sicurezza Presidium, di cui ero socio. Dovevamo proteggere il personale di una società che si occupava di telefonia a Bagdad». L'Irak, occupato un anno prima da una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti, era tutt'altro che pacificato. Per garantire la sicurezza delle nuove istituzioni e delle attività economiche arrivarono in Irak migliaia di contractors , assunti da compagnie private. Tra questi vi sono anche Stefio, Quattrocchi, Agliana e Cupertino. Il 13 aprile 2004, i quattro italiani lasciano Bagdad diretti ad Amman su un veicolo guidato da un autista iracheno. Tre di loro (Stefio, Agliana e Cupertino) devono rientrare in Italia, Quattrocchi li deve accompagnare e poi rientrare a Bagdad. «Le cose non si mettono bene già poco dopo la partenza racconta Stefio -. A un posto di blocco americano i militari ci costringono a cambiare percorso: l'autostrada Bagdad-Amman non è percorribile a causa dei continui attacchi». L'autista sembra non conoscere bene la strada e, dopo qualche deviazione, incappa in un altro posto di blocco alle porte di Falluja. Questi, però, non sono soldati americani. «Un check point di miliziani armati, non avevamo via di scampo, ci siamo proprio finiti in bocca», spiega Stefio, che ancora oggi nutre sospetti sul ruolo dell'autista. Sono le autoproclamate Falangi Verdi di Maometto. I gruppi terroristici stanno crescendo come funghi in Irak e per salire alla ribalta, e magari monetizzare, rapiscono gli occidentali, come accade ancora oggi. Dopo meno di 48 ore, i terroristi decidono di giustiziare Quattrocchi. «Volevano dare un segnale all'Italia che stavano facendo sul serio», dice Stefio, sottolineando il fatto che i rapitori avevano invece raccontato loro di aver liberato Fabrizio. Le richieste dei terroristi non sono una sorpresa: il ritiro delle truppe italiane dall'Irak. Comincia così una lunga prigionia. «Siamo stati in mano sempre allo stesso gruppo, ci hanno spostato almeno una dozzina di volte, l'ultima in una scuola abbandonata a 35 chilometri da Bagdad».
La vita da ostaggio è costellata da enormi pressioni psicologiche. «Ci interrogavano spesso ricorda Stefio e tentavano continuamente di convertirci all'islam. All'inizio ci hanno portato un libro religioso e un maghrebino, che parlava italiano, ha cercato di convincerci». Ma i suoi tentativi falliscono e allora passa alle minacce. «Il tempo è scaduto, ha detto un giorno puntandomi l'arma contro. Io gli ho risposto: posso anche dirti mi converto, non sarebbe però il mio cuore a spingermi, ma le minacce. Da quel giorno rinunciò a convertirci». Dopo gli ultimatum respinti dall'Italia, i terroristi non sanno più che farsene degli ostaggi. «Nell'ultimo periodo ci faceva la guardia un ragazzo. Parlava inglese e siamo pian piano entrati in confidenza». Il giovane iracheno non voleva saperne di rapimenti e di ostaggi, aveva acconsentito a fare da guardiano solo perché temeva ripercussioni sulla sua famiglia. «Quando ha saputo che volevano giustiziarci tutti, è venuto a raccontarcelo e lo abbiamo convinto ad avvisare la nostra ambasciata. Ma non gli hanno creduto». Per fortuna Stefio, proprio per tutelarsi in queste emergenze, aveva lasciato una parola in codice a un amico in Italia prima di partire. L'amico, dopo il rapimento, l'aveva riferita ai carabinieri, i quali avevano informato i nostri rappresentanti in Irak. «Ho comunicato la parola al ragazzo, che è tornato all'ambasciata. A quel punto gli hanno fornito un dispositivo Gps per localizzarci. Quando è tornato ci ha detto: se domani non accade nulla, scappate o non avrete più scampo», rammenta Stefio. La mattina dopo scatta il blitz delle forze speciali Usa che li porterà tutti e tre in salvo dopo 58 giorni.
Ma al danno della prigionia, si aggiunge la beffa del processo. Poco dopo il rientro in Italia, la magistratura li accusa di essersi arruolati come combattenti nelle forze irachene e quindi di non essere delle guardie di sicurezza private. «È stato vergognoso, ma ne siamo usciti a testa alta». Il teorema infatti non sta in piedi e viene smontato nelle aule giudiziarie, ma non risparmia altre sofferenze alle famiglie degli ex ostaggi già provate dal rapimento e dalla morte di Quattrocchi. «Mi sono sposato nel 1999 e ho un figlio di 14 anni spiega Stefio -. Ho la fortuna di avere una moglie eccezionale che ha saputo gestire una situazione drammatica, aiutata dalla famiglia e dalle istituzioni. Quando mi hanno rapito mio figlio aveva poco più di tre anni». Dopo un anno sabbatico, Stefio è tornato a occuparsi di sicurezza. «È la mia professione». Nel 2009 ha fondato la Resurgit, che si occupa anche di gestione di crisi, servizi antipirateria, sopravvivenza in prigionia. «Il lavoro non manca. Certo, ora non sono più una semplice guardia privata, ma fornisco alle aziende che operano in Paesi a rischio consulenza sulla sicurezza e, nel caso, personale per la protezione. Poi, con l'emergenza pirateria, mettiamo anche a disposizione team di sicurezza da imbarcare su navi mercantili». Non è un lavoro remunerativo. «Una guardia in servizio antipirateria guadagna mediamente 150 euro al giorno e la concorrenza straniera è tanta». Oggi i contractors italiani operano in Irak, Afghanistan, Nigeria e America Latina. «Ho una banca dati tramite la quale posso contattare circa un migliaio di persone, stranieri compresi. Gli italiani impiegati oggi all'estero? Sono circa una ventina». Forte della sua esperienza in Irak, Stefio illustra con orgoglio i corsi di sopravvivenza alla prigionia. «Partecipano manager e giornalisti. Che cosa gli insegniamo? A sopravvivere e che condotta tenere dopo la cattura». Ma ci sono anche altre passioni che oggi occupano la mente e il tempo di Stefio. La prima è un hobby che ha coltivato fin da piccolo: la pittura. «Non faccio mostre, ma appena ho un po' di tempo libero mi piace prendere il pennello. Mi piace dipingere figure mitologiche». Alla pittura si aggiunge una passione molto più recente: la politica. «La scorsa estate ho deciso di fondare un movimento politico, il Fronte patriottico - spiega -. Era il mio sogno nel cassetto». Stefio non nasconde di nutrire sempre un forte amore per la patria e di desiderare che l'Italia possa essere un Paese rispettato e con ruolo più incisivo a livello internazionale. «Sogno una nazione forte e libera, soprattutto da quelle lobby sovranazionali che ci hanno tolto la sovranità». Ma lo dice con i piedi per terra.
«Voglio dare un contributo al cambiamento senza alcuna velleità. Per me fare ora politica è una questione di coscienza. Se un domani mio figlio mi domandasse ma tu che cosa hai fatto per il nostro Paese?, io vorrei poter rispondere senza imbarazzo: poco, ma ci ho provato».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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