Salvatores: ecco la mia Milano da Oscar

Sorpresa: Milano è bella, scenografica e cinematografica. Parola di Gabriele Salvatores, che di luoghi se ne intende. Da Puerto Escondido a Marrakesh fino alla Melfi di «Io non ho paura», non c’è suo film che non sia irrimediabilmente ispirato a un paesaggio, a un rifugio, a un’architettura. E il meltin’ pot di liberty e cantieri della metropoli sotto le guglie non sembra uno scenario meno magico di una spiaggia costeggiata dalle dune o di un sentiero mediterraneo da percorrere in Land Rover. Anzi. «Ho scoperto -dice durante le ultime riprese del suo Happy Family- ho scoperto che Milano non è soltanto una città di interni e di cortili, ma di esterni memorabili. Non quelli da cartolina come a Roma o a Napoli, ma quelli adatti ai fotografi raffinati che, dovunque si girano, possono inventare l’inquadratura mozzafiato». Happy Family, prodotto dalla Colorado e che arriverà nelle sale a febbraio, è un inno ai vizi e alle virtù della Milano contemporanea, quella dei sentimenti irrisolti, della paura di innamorarsi e del lasciarsi andare, come nella celebre canzone di Memo Remigi. Ma si presenta soprattutto come un film estetico ed estetizzante, che mette in scena una metropoli in forma teatrale in cui gli stereotipi urbani appaiono manierizzati, dai Navigli al tramonto al verde di via Palestro ai marmi della Stazione Centrale. La nuova Milano di Salvatores non ha nulla a che vedere con i bassifondi crepuscolari delle case di ringhiera che campeggiavano nel suo «Kamikazen» del 1987, ma ha la luminosità iperrealista di una città che si può guardare ed amare, oltre che utilizzare, a metà tra la Manhattan di Woody Allen, i bianchi e neri di Gabriele Basilico e i palazzi in «cibachrome» dei dipinti di Marco Petrus.
Detta così sembra quasi uno spot all’Expo 2015, e il sostegno al film da parte della Regione Lombardia (100mila euro più i supporti logistici) potrebbe suffragarlo. In realtà, l’affresco che fa da figura-sfondo alle vicende umane di due famiglie borghesi -interpreti Fabio De Luigi, Margherita Buy, Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio e Carla Signoris- è carico del romanticismo del regista napoletano ma milanese d’adozione che, dopo lungo peregrinare, torna alle «radici». «In questi mesi -racconta- ho girato in oltre trenta location della città, dalle officine del volo di via Mecenate alle guglie del Duomo che, in una scena del film, si fondono con un notturno di Chopin. Mi sono anche emozionato quando abbiamo ripreso i giardini di Porta Venezia di cui conservo una foto di quando avevo otto anni e mi mettevano in groppa a un cavallino». Quasi un omaggio da figliol prodigo, dunque. «Lo dovevo a questa città, culturalmente più opaca che negli anni ’70, ma che può risorgere.

Qui il cinema ha lavorato troppo poco perchè a a Roma è più facile e meno costoso, ma quando mi hanno proposto di girare almeno gli interni nella capitale ho detto di no e avevo ragione. Qui anche gli appartamenti hanno un’altra faccia, inconfondibile».

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