Il peggio è passato. O forse deve ancora arrivare. La grande paura aleggia su tutta Bangkok. Angoscia i suoi 15 milioni dabitanti. Agita i generali consapevoli di aver reciso lascesso, ma di non aver estirpato il tumore. Turba i sonni di un primo ministro Abhisit Vejjajiva sempre più debole, sempre meno amato, e sempre più a corto di consensi. Così mentre la capitale del turismo e del sesso, la città abituata a non dormire mai sperimenta il coprifuoco e assiste al prolungarsi di una crisi già costata 3 miliardi di dollari, la nazione sinterroga sul futuro. La sconfitta delle camicie rosse dopo 9 settimane di scontri, non è un trionfo, ma una sinistra vittoria di Pirro. I 53 morti (tra cui il fotoreporter italiano Fabio Polenghi) e i 400 feriti dellultima settimana dimostrano linadeguatezza di un esercito costretto a scegliere il bagno di sangue per aver la meglio su qualche migliaio di rivoltosi male armati. Ma quel massacro evidenzia anche la debolezza di un governo consapevole di non aver dietro a se la maggioranza del Paese e incapace di affidare al voto la definizione di nuovi equilibri politici e sociali. Ieri il premier pur dicendosi deciso a battere la strada della riconciliazione nazionale non ha accennato alla possibilità di elezioni a breve termine. «Il mio governo farà fronte alle sfide e supererà ogni difficoltà attraverso il piano in cinque punti che ha già presentato - ha detto Abhisit riproponendo un programma basato su riforme politiche, giustizia sociale e indagini sugli episodi di violenza politica degli ultimi mesi. Quel piano proposto lo scorso 3 maggio era già stato liquidato come insufficiente dai capofila della protesta decisi nel pretendere limmediato ricorso alle urne.
Così dietro i resti delle barricate e le centinaia di rivoltosi deportati nei campi militari del Sud molti intravedono lombra del disastro prossimo venturo, la spada di Damocle capace di tagliare in due il Paese. Il repulisti di Bangkok non ha certo sanato le cause della rivolta. Il vero ispiratore della protesta, lex premier Thaksin Shinawatra costretto allesilio dal colpo di Stato del 2006 ne esce ancor più rafforzato. Il diluvio di pallottole abbattutosi sulle camicie rosse, avanguardia di quel popolo delle campagne a cui Thaksin prometteva promozione sociale e assistenza sanitaria, alimenta ancor più lodio contro la casta di potere. Nelle statistiche economiche quella casta è rappresentata dal 20 per cento di privilegiati proprietari del 55 per cento della ricchezza nazionale. Per i fedelissimi di Thaksin sono generali e magistrati colpevoli di essersi inventati le accuse di corruzione allex premier in esilio. Non a caso allepilogo sanguinoso della protesta di Bangkok fa da contrappunto laccendersi dei disordini in quel nord-est della Thailandia tradizionale bacino di voti dei sostenitori di Thaksin. Per questi ultimi il premier Abhisit Vejjajiva resta una marionetta dei generali, di quei poteri forti accusati di aver costretto alle dimissioni nel dicembre 2008 anche il primo ministro Somchai Wongsawat eletto come sostituto di Thaksin.
La malattia dell82enne re Bhumibol Adulyadej, segregato da mesi in un ospedale e prossimo alla morte, rende lo scenario ancor più inquietante. Il sovrano pur essendo il vero controllore della casta al potere è sempre stato il vero risolutore di tutte le contrapposizioni politiche e sociali. Quella funzione rischia di restare ora senza eredi. Limmagine del successore designato, il 57enne Maha Vajiralongkorn già poco amato per la sua vita da playboy e i due divorzi seguiti da un matrimonio con una moglie ragazzina, ha toccato il fondo quando qualcuno ha caricato su Youtube il filmato del principe in compagnia della poco amata consorte e del loro cagnolino Fufi.
Dopo il sangue, il governo resta debole
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