Sanguineti, ma che Mosca hai visto?

Passando in rassegna la lunga e tragica serie di storie che lo scrittore croato Predrag Matvejevic traccia nel diario epistolare Un’Europa maledetta. Sulle persecuzioni degli intellettuali dell’Est appena pubblicato da Baldini Castoldi Dalai, ci s’imbatte in un racconto che fa capire come alle persecuzioni contribuirono, sia pure solo in forma di occasionali e innocui tafanatori, gli intellettuali dell’Ovest. E questo è uno dei meriti di un libro che riesuma il mondo sepolto dalle macerie del Muro: il mondo dei dissidenti che lo stesso Muro contribuirono ad abbattere.
Nel settembre 1976, Matvejevic venne invitato a un congresso di scrittori in Urss, a Taskent, Uzbekistan. Partecipava anche Edoardo Sanguineti. Nato a Genova nel 1930, Sanguineti era deputato comunista ma senza tessera. Voleva unire avanguardia politica e letteraria. Aveva un figlio che militava nella gioventù comunista e che era stato picchiato dai neofascisti. Il ragazzo l’aveva pregato di comprargli in Urss «un piccolo busto di Stalin o Lenin».
Predrag Matvejevic, classe 1932, era figlio di un aristocratico russo di Odessa, fuggito durante la Rivoluzione bolscevica nella Jugoslavia monarchica. L’esule odessita era rimasto in Jugoslavia dopo l’avvento di Tito anche se con scarso entusiasmo e a scapito della propria carriera avvocatizia. Sempre meglio della sorte che avevano subìto i familiari deportati da Stalin. Circostanze personali che dovevano aver chiarito al figlio Predrag la natura del regime sovietico prima della denuncia dei crimini del dittatore georgiano, dell’invasione dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, della pubblicazione di Solzhenitsyn. Mentre per il socialismo da souvenir di Sanguineti neanche questo era bastato.
Matvejevic non voleva ferirlo e non si sentiva troppo sicuro a Taskent, quindi si limitò a buttare lì qualche commento. Mentre passeggiavano, ironizzò su una gigantografia di Brezhnev corredata dalla scritta «Il popolo sovietico lo sa: dove è il partito - là è il successo, là la vittoria». Sanguineti disse che era sempre meglio di una «pubblicità della Coca-Cola». In disaccordo i due si lasciarono e Matvejevic se ne andò a dormire facendo incubi e svegliandosi sudato. Temeva di fare la fine di alcuni jugoslavi venuti in Urss con le migliori intenzioni e spariti senza lasciare traccia. Solo uno, Karlo Stajner, che narrò l’esperienza nel bellissimo ed epico 7000 giorni in Siberia (in Italia ormai introvabile), era tornato. Matvejevic gli dedica alcune delle più belle pagine di Un’Europa maledetta.
Prima di partire, Sanguineti ricevette il bacio appassionato di una «mongolologa» ubriaca e riuscì a comprare il fatidico souvenir sovietico per il figlio: un disco con la voce di Lenin, non la statuina. Sulla via del ritorno, fece tappa a Mosca. E con altri del Congresso venne invitato alla radio. Dove non vide o fece finta di non vedere una ventina di persone in fila per delle mele grinzose. Sosteneva del resto che gli intellettuali sovietici quando vengono in Occidente vengono trattati coi guanti e poi tornano in Urss a magnificare quello che hanno visto. Ma in Occidente la vita era dura e anche la sua lo era stata. Questo il racconto sul viaggio di Sanguineti in Urss.

Racconto che insieme agli altri di Un’Europa maledetta aggiunge un tassello alla letteratura sul comunismo. E risponde a una domanda che tanti si sono posti senza mai trovare risposta: ma chi andava oltre Cortina e poi tornava in Italia dicendo che era il Paradiso, o poco meno, cosa aveva visto, cosa aveva fatto laggiù?

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