Sanità della vergogna a Vibo: un dipendente su 4 sta a casa

Dipendenti a casa in permesso, ospedale avanti a singhiozzo. E in sala operatoria si entra solo due volte a settimana.
Vibo Valentia, profondo sud. Spicchio d’una Calabria dove sanità fa rima con affari, non sempre puliti, al punto che proprio l’Asp, Azienda sanitaria provinciale vibonese, dal dicembre del 2010 affidata ad una terna di commissari inviati da Roma a sanare le ferite aperte dalle infiltrazioni mafiose e dalle morti di Federica Monteleone ed Eva Ruscio, le due adolescenti che nel 2007 persero la vita tra le corsie dell’ospedale cittadino. Eppure, a Vibo e tra le corsie del suo ospedale, nonostante le vite spezzate, a dispetto delle inchieste di magistratura e Commissioni parlamentari, nessuno è ancora riuscito a salvare la speranza.
La Calabria ha il record di casi di malasanità segnalati dalla Commissione parlamentare sugli errori sanitari, e gran parte sono accaduti a Vibo. Lo scorso febbraio in dieci, tra veterinari e impiegati, finirono dietro le sbarre. Sorpresi dai Carabinieri a fare la spesa, ad accompagnare i figli a scuola, addirittura a ristrutturare la casa al mare, naturalmente in orario di ufficio grazie alla collaborazione di colleghi compiacenti, abili nel timbrare fino a una decina di cartellini alla volta. Che ingenui. Oggi si scopre che erano solo i colleghi che avevano scelto i sistemi più rozzi per svicolare il lavoro. Una pratica che in questi uffici pare più diffusa della pausa caffè. Nel pieno rispetto della legge, naturalmente. E pazienza se l’ospedale funziona a singhiozzo perché il personale manca. Sugli organici più o meno al completo, pesano centinaia di assenze. Tutte lecite, tutte retribuite.
Nell’azienda sanitaria più sgarrupata d’Italia capita anche questo. Parlano i numeri: l’Asp di Vibo, forte di 1186 dipendenti, ne conta ben 293 titolari di permessi riconosciuti loro perché sofferenti di particolari patologie o per accudire il parente gravemente ammalato e perciò bisognoso di accompagnamento. Uno su quattro, insomma, per diversi giorni al mese se ne resta a casa, denunciando i malanni più disparati, dalla zoppia a mal di schiena lancinanti e tali, ovviamente, da rendere ardua l’impresa di restare otto ore al giorno al lavoro. Un’altra parte dei faticatori di Vibo resta invece a casa per prestare assistenza a familiari invalidi. Condizione che in zona sembra essere collegata a una specie di epidemia, portata alla luce qualche giorno addietro dalle proteste dei pazienti ricoverati nel reparto di Ortopedia dell’ospedale. Costretti a saltare la seduta operatoria per mancanza di personale. «Allo stato, oltre alle urgenze -spiegava appena ieri dalle colonne della Gazzetta del Sud il direttore sanitario Mario Tarabbo -sono possibili settimanalmente due sedute di ortopedia e altrettante di chirurgia generale, una per oculistica e un’altra per ostetricia e ginecologia». Nessun dubbio sulle cause dell’emergenza: «Abbiamo un esercito di persone con problemi loro o di familiari da accudire - evidenziava ancora Tarabbo - e in queste condizioni non si può fare altro che osservare quanto la legge prevede». E siccome piove sempre sul bagnato, ancora da quelle leggi che dovrebbero tutelare i più deboli nascono altri problemi. Come quelli legati ai 12 dipendenti che due volte a settimana devono partire da Vibo alla volta degli ospedali di Tropea e Serra San Bruno per assicurare sedute operatorie in day hospital, sguarnendo però la già esposta trincea vibonese. «Non abbiamo potuto fare diversamente - la spiegazione offerta dalla direzione sanitaria - in quanto c’era da rispettare l’accordo Regione-Sindacati sulla mobilità, in base al quale un dipendente può essere movimentato nell’ambito dei venticinque chilometri. Si può superare questa soglia soltanto per urgenze ma non oltre i trenta giorni. In caso contrario, la mobilità è consentita in caso di chiusura dei reparti dai quali il personale proviene.

Un accordo intoccabile, anche di fronte alle criticità che molto spesso ci troviamo a dover superare e che, a voler fare un parallelismo, sebbene estremo ma che serve a rendere l’idea, sta alla nostra asp come l’articolo 18 sta al Governo».
Così, nel nome della legge, muore la sanità in Calabria.

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