Dopotutto è meglio così: niente bagatelle politiche, in fondo sarà la serata del Festival di Sanremo che celebrerà i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, il 17 febbraio, per favore basta scontri almeno quel giorno. Perciò, niente Bella ciao o Giovinezza, peraltro canzoni di scarso valore musicale e per di più pronte a essere tirate per la giacchetta da tutte le parti. Italia, piuttosto. Italia neorealista, l’Italia che siamo noi, piena di slanci romantici, tumulti passionali, creatività magari spesa male eppure così invidiata da tutti, specialmente da quelli che se la sognano. Insomma, l’Italia più da Festival di Sanremo che da congiure di palazzo e tutte quelle cose lì che, per fortuna, la musica o sublima o dimentica. Difatti ieri Gianni Morandi, che si è preso la briga di mandare avanti uno degli eventi telemusicali più complicati del mondo, ha detto che «gli artisti hanno preso la serata molto sul serio».
E il ritratto che ne esce, il biglietto da visita di un evento che si chiamerà «Nata per unire», è tutto sommato accettabile, anzi forse persino lusinghiero e poco importa chi canterà cosa. Ognuno può dir la sua, proprio come sulla Nazionale di calcio, e difatti lo faranno tutti magari pure a sproposito. Di certo l’Italia è stata presa per mano, decennio dopo decennio, proprio da queste canzoni, dal risorgimentale Va’ pensiero di Verdi (figurarsi Al Bano, non aspettava altro che di cantarlo a Sanremo) fino all’Italiano di Toto Cutugno che sa di Mundial, di Pertini e di caffè ristretto ma toccherà al meno italiano di tutti, Tricarico, strampalato com’è, irsuto e dolce quasi fosse disegnato da Charles Schulz. Noi siamo quelli di Addio mia bella addio che l’hanno cantata tutti quei disgraziati di Bitonto, Vittoria o Fossano, magari con voce tremula, mentre partivano per farsi macellare vicino Caporetto (toccherà a Luca Barbarossa, e va bene, ma chissà quanto la capirà la sua socia Raquel del Rosario) e pure quelli di Mamma (Tatangelo, ovvio), che Beniamino Gigli innaffiava di commozione cantandola ai paisà sul palco del Metropolitan di New York. Insomma ci sono, in queste quattordici pennellate, le stratificazioni dell’italianità, la Parlami d’amore Mariù di Vittorio De Sica, il Surdato ’nnammurato che da Aniello Califano è passato per la favolosa Anna Magnani e ora, cent’anni dopo, finisce a Roberto Vecchioni che una canzone come questa, così malinconicamente retorica, figurarsi se l’avrebbe cantata quand’era giovane e battagliero.
E ci sono le Mille lire al mese, quelle sì sognate e cantate durante il fascismo forse più di Giovinezza, consegnate a una, Patty Pravo, che di sogni si è riempita assai, ma forse mai così, perché non è mai stata del tipo «un modesto impiego, io non ho pretese».
E alla fine sarà una seratona da smoking che magari, come dice Gianmarco Mazzi, per chi voterà da casa «potrà influire psicologicamente sul voto del ripescaggio», (come dire, cari cantanti impegnatevi altrimenti vi eliminano), ma potrebbe avere la regia di Germi o di Monicelli e diventare la colonna sonora di un film su chi siamo davvero prima di distrarci con le fanfullate da Armata Brancaleone, con le italianità fatte apposta per farci infine perdere tutte le disfide che vinceremmo a occhi chiusi se tenessimo chiusa anche la bocca.
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