Chiariamo subito un concetto, che dovrebbe essere noto, ma non lo è affatto qui da noi. Le elezioni presidenziali americane quest'anno offrono ancora una volta l'immagine di quanto solidi siano la democrazia Usa e i valori liberali che la sostengono. Si sono tenute, fin dai tempi della fondazione regolarmente ogni quattro anni, senza alcuna sospensione, né durante la Guerra civile, né durante la Seconda guerra mondiale; il sistema elettorale è intatto dopo oltre due secoli di vita dell'Unione; le elezioni presidenziali sono lo specchio del patriottismo, che si compie al meglio nell'election day. Il presidente, proprio per queste ragioni, è degno di rispetto anche quando lo si critica. Tuttavia un presidente fesso può capitare anche a loro, un esempio per tutti è Jimmy Carter, che non distingueva una nocciolina da un ayatollah, non a caso lo hanno sostituito rapidamente, non a caso ha vinto il Nobel per la pace.
Sicurezza nazionale e politica estera gli erano e gli restano sconosciute, proprio come succede oggi al rutilante santino d'Europa, il candidato democratico, Barack Obama. La retorica untuosa del nero che tutti riscatta non mi convince, Obama è il candidato perché il Partito democratico è tornato in preda alle abituali convulsioni radicali, alle sparate di Nancy Pelosi, e ha dichiarato guerra nelle persone dei superdelegati a Hillary Clinton. È un vizio antico, dal quale riuscì a curarlo Bill Clinton, riportando tutti al centro e facendo fuori i sindacati. Certo, il senatore dell'Illinois è bello a vedersi, al pari della moglie, e parla come i bigliettini dei Baci Perugina, ma nei prossimi mesi uno straccio di programma decente dovrà produrlo, non basterà più la carta dell'uomo giovane contro la donna in età, figuratevi, per un Paese che elesse Ronald Reagan, quella del giovane contro l'anziano.
Sulla serietà di un candidato che ha nell'armadio la scomoda fotografia di una nonna keniota, tenuta nascosta in favore di quella bianca, finché non è diventata utile, ma anche il libro del Corano, frutto di studi in una madrassa, scuola coranica, voluti dal patrigno, mi limito per ora a citare la mutazione improvvisa delle visioni di politica estera che gli erano servite per vincere le primarie, ma non hanno le stesse probabilità di successo nelle elezioni di novembre. In un discorso tenuto mercoledì di fronte all'American-Israel public affairs committee, Obama ha esplicitamente parlato dell'eventualità della soluzione militare contro l'Iran, una svolta nelle parole del candidato che aveva sempre sostenuto la strategia del dialogo con il regime iraniano, non escludendo addirittura un incontro diretto e secondo lui risolutivo con Ahmadinejad.
Iran e Irak saranno al centro da qui a novembre dello scontro tra i due candidati alla Casa Bianca, e sono pronta a scommettere su una rapida revisione anche delle posizioni sull'Irak. Il «surge», l'aumento di truppe sul campo richiesto da John McCain, ma anche da un senatore democratico moderato come Joseph Lieberman, e ordinato dal presidente Bush, vituperato da Obama e company, quello del grande generale David Petraeus, ha portato a una drastica diminuzione della violenza nel Paese, alla cacciata di Al Qaida e alla neutralizzazione delle fazioni più ostili. L'Irak si è trasformato in un'inattesa arma per i repubblicani, altro che ritiro dei soldati come leva della vittoria.
John McCain sa così bene che il suo sfidante ha molti anni di meno di lui, ma anche molte idee perdenti in più, che ha proposto a Obama 10 dibattiti in 10 settimane, a partire dal 12 giugno, con la formula del «town hall meeting», un'assemblea dove il pubblico fa liberamente domande. Vedrete allora che fine farà il santino pacifista d'Europa.
Maria Giovanna Maglie
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