Tutto riposto in cantina. Come si fa, passata l’Epifania, con le decorazioni di Natale e le statuine del presepe. Con Pierluigi Bersani finiscono in cantina «lo spirito di Obama» (che quel vanitoso furbetto d’un Franceschini intendeva render addirittura tangibile scegliendosi, per vice, l’italo congolese Jean Touadi), in cantina il cambiamento, il voltar pagina, il futuro migliore e diverso, il serracchianesimo, cioè la «ventata d’aria fresca» che avrebbero dovuto alitare i giovani rappresentati da quella simpatica patatona d’una Debora Serracchiani. Marcia indietro. Si torna all’antico, si pesca nell’antiquariato. Si riciccia la balena rossa, il mucchio selvaggio con i Bertinotti e i Pecoraro Scanio, la voglia di comunismo («Avrei difficoltà a stare in un partito dove la parola socialismo fosse un tabù», sono state le prime parole del neosegretario del Piddì, intendendo egli il socialismo non quello di Turati, ma quello «scientifico» di Carlo Marx), il centralismo democratico, le tessere e dunque lo strapotere di chi ne è padrone, quei galantuomini di Antonio Bassolino e Agazio Loiero in testa.
E a coronamento di questo mesto amarcord, a marchio, a sigillo della fuga all’indietro, Bersani - «il più genuino rappresentante del riformismo emiliano» - chiama o meglio invoca quell’ectoplasma di Romano Prodi a presiedere il Partito democratico. Che sente già suo visto il tono col quale ha liquidato la tentazione di Rutelli di scendere dallo sgangherato barcone del Piddì: «Se qualcuno se ne va, non succede niente».
Tanto, poi, ci penserà lui, lui Prodi, a tappare il buco lisciando il pelo a Nichi Vendola, mettiamo, rappattumando qualcosa a sinistra della sinistra, ché tutto fa brodo per l’Ulivo che incombe.
Strani tipi i «sinceri democratici»: metter su quell’ambaradan delle primarie, disseminare l’Italia di gazebi, scucire i due euri per poi ritrovarsi tra i piedi Romano Prodi. Struggersi per dare alla sinistra quella nuova e tanto agognata identità per poi affidarsi a Romano Prodi. Un ragiunatt della politica per il quale contano solo i numeri: tanti ne servono per diciamo così governare, tanti ne somma senza badare alla provenienza. Alla fine i conti non gli sono mai tornati, nonostante avesse, in un caso, fatto ricorso anche ai senatori a vita portati a braccia. Ma solo questo sa fare: contare. Altro che ideologia, altro che identità.
L’ultima volta, per accontentare tutti i capricci ideologici della raffazzonata compagine governativa sfornò un programma di governo di oltre duecento pagine. Quando fu silurato (dai suoi: Prodi è destinato a cadere per fuoco amico) di quel programma nessuno era andato più in là della prefazione. E questo è l’uomo che Bersani giudica opportuno se non proprio indispensabile mettere alla presidenza e dunque a rappresentare l’anima del Partito democratico. Plumbeo nella sua struttura su modello politburo, inane nella azione (e meglio non parlare del pensiero). Fino a qualche decennio fa l’incubo dei «sinceri democratici» era quella di dover morire democristiani. Ci pensarono Antonio Di Pietro e i suoi sodali del pool meneghino a liberarli da quell’ossessione. Ora, però, in un tripudio di tartufismo e di ipocrisia buonista si ritrovano destinati a morire o comunque a sopravvivere prodiani. E non si vede cosa ci sia da guadagnarci, nel cambio. Però è esattamente quel che si meritano per aver preso sul serio le omelie dei repubblicones mandandosi così il cervello in pappa con l’antiberlusconismo isterico.
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