Cultura e Spettacoli

Tra Sapienza e oppressione il «Va’ pensiero» non tradisce

Emoziona sempre il piatto forte del Nabucco diretto da Oren. Grande Leo Nucci

da Verona

Si socchiudono gli occhi, si aguzzano gli orecchi, si sta tesi, zittissimi, aspettando quell’attacco mormorato pianissimo, con la fatica di non potersi unire, almeno a bocca chiusa: così in Italia si previene e si accoglie, caso rarissimo, riconoscendone già l’introduzione, Va', pensiero. Poi c’è il rito del bis, che anche all’Arena di Verona, nella serata d’inaugurazione, c’è stato, anche se le richieste non erano massicce; così, il direttore Daniel Oren ha potuto esibire la mimica da raptus d’emozione che sarebbe più credibile se non gliel’avessimo già vista altre volte, e la gente esser felice di avere vissuto quel momento che da solo vale il viaggio e l’impegno di ascoltarsi tutto il Nabucco.
E più che mai lo vale questa volta, nello spettacolo delle gradinate affollate, raccolte attorno a un grande mito intimo, musicale, nazionale, e in quello allestito da Denis Krief, regìa, scene e costumi, netto, intelligente, essenziale. Il Nabucco, prima opera popolare del giovane Verdi, com’è noto, racconta un episodio della storia ebraica: e noi vediamo, stilizzati e aperti, due alti poliedri irregolari intelaiati di travi bianche e percorsi da scale e piani, l’uno, più grande, che ospita file di libri, ed è il mondo ebraico della Sapienza, l’altro accostato a una colonna spezzata di rilucente oro, che contiene frammenti di una spirale cilindrica d’oro ed è il mondo degli oppressori, del potere.
Negli ampi spazi asimmetrici lasciati liberi, gli interpreti, in abiti spogli ma teatralmente eleganti, recitano come una compagnia di forti attori; il coro si muove con chiarezza, e quando si rifugia lentamente nel suo luogo per Va’, pensiero, si compone da sola, come un braccio di carcere, l’immagine asciutta dei prigionieri di tutti i tempi.
I cantanti hanno dato se stessi. Io credo sia impossibile non farlo quando il protagonista è Leo Nucci, carriera gloriosa, voce immacolata, esempio d’arte e di dedizione assoluta. Così si è buttata Maria Guleghina con qualche fatica ma approdando ad un’aria finale intensa e sublime; hanno dato la loro presenza e la voce disciplinata Fabio Sartori e Carlo Colombara; ha sprigionato teatro Nino Surguladze. L’opera è apparsa com’è: molto bella. Oren l’ha sostenuta danzando un po’ troppo nelle parti di sapore risorgimentale.

Non è mancato il solito grido di «Viva Verdi».

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