Sarajevo-Chicago saga di dolore e d’anarchia

Anche un orologio rotto, prima o poi, segna l’ora esatta. Ma serve qualcuno che abbia la possibilità, oltre alla voglia, di aspettare per dire: «ecco, sono proprio le ore X». Allo stesso modo, anche la Storia, come l’assassino, prima o poi torna sul luogo dei suoi delitti. Ma non sempre c’è un testimone in grado di «incastrarla». In Il progetto Lazarus (Einaudi, pagg. 308, euro 21, traduzione - pulita e puntuale come un orologio svizzero - di Maurizia Balmelli), Aleksandar Hemon usa due porzioni di Storia, l’inizio del XX e l’inizio del XXI secolo, e chiama a deporre un folto gruppo di testimoni.
È il 9 marzo 1908 quando un ragazzo allampanato suona alla porta di mister Shippy, il capo della polizia di Chicago. Ed è il 3 marzo 2004 quando un aspirante scrittore cittadino americano ma bosniaco d’origine, sempre a Chicago, partecipa al rituale incontro in cui decine di persone, trasferitesi lì da Sarajevo e dintorni, si riuniscono per festeggiare il Giorno dell’indipendenza della patria lontana. Del ragazzo allampanato, prima di iniziare a leggere, non sappiamo nulla. Invece nell’altro, il romanziere «in sonno», riconosciamo a pagina 17 lo stesso Autore. Che è nato a Sarajevo il 9 settembre ’64 e che dal ’92, quando si trovava a Chicago per turismo, vive negli Usa e scrive in inglese. Nel romanzo, Hemon (o buona parte di lui...) diventa Vladimir Brik, e il suo... come vogliamo chiamarlo? corrispondente? si chiama Lazarus Averbuch.
Tuttavia le loro vite non sono parallele. Le linee di entrambe procedono irregolari, cozzando contro ostacoli diversi o aggirandoli. Su Lazarus pesano due marchi: ebreo e anarchico. Ebreo lo è, sfuggito al pogrom di Kisinev del 1903 e approdato in quella che dovrebbe essere la culla della libertà. Quanto alla fede anarchica, è più teorica che reale. Ma tanto basta, ai papaveri dell’ordine pubblico, per camuffare il suo omicidio da parte di Shippy come la morte, benedetta da Dio e dai cittadini onesti, di un terrorista. Vladimir, ebreo non è, e nemmeno cattolico. Anarchico? Forse... Però avere una moglie bella, di buona famiglia e per di più neurochirurgo è da borghesi. Come da borghesi è perdere il lavoro d’insegnante d’inglese e vivere alle spalle della consorte portando a casa quattro dollari in croce con una rubrica. Quindi, anche per prendere le distanze da un mondo che lo ha adottato, ma dove si sente un pesce fuor d’acqua, Vladimir decide di tornare in Europa, alle radici della storia di un rifugiato di nome Lazarus...
Hemon, del quale Einaudi ha già pubblicato Spie di Dio (2000) e Nowhere Man (2004), conduce con mano ferma il doppio binario narrativo, distribuendo sul cammino del lettore, come fossero le briciole di pane di Pollicino, alcune inquietanti coincidenze fra l’una e l’altra vicenda (il riccone che finanzia il viaggio di Vladimir si chiama Schuettler, come il vice di Shippy; Miller è il cognome del giornalista che nel 1908 avvalora la tesi colpevolista nei confronti di Lazarus, e Miller si chiama l’inviato che, nella guerra del ’92-95, fa coppia con Rora, fotografo ed ex compagno di classe di Vladimir che, una dozzina d’anni dopo, lo accompagna in una Grand Tour fra Ucraina, Moldavia, Romania e Bosnia).
Avvertiamo, nell’Autore, un sottile senso di colpa per aver abbandonato la barca alla deriva delle proprie origini, e la voglia di scontare, con il pellegrinaggio, la condanna della memoria. Sono le donne ad azionare le ruote del suo ingranaggio.

Si tratti di Emma Goldman, la Regina Rossa dell’anarchia; di Olga, sorella di Lazarus, rapita da un meccanismo infernale perché cerca la verità sulla fine del fratello; di Mary, moglie di Vladimir; dell’incantevole Juljana, che lavora al museo di Chisinau; di Elena, destinata alla strada della prostituzione ma salvata da Brik e Rora; di Azra, sorella di Rora, medico come Mary, ultima in ordine di apparizione ma che, forse, potrà essere la prima nella nuova vita di Vladimir. In fondo, la Storia è femmina e, lo sappiamo, le piace fare dei lunghi giri per tornare al punto di partenza.

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