Pronunciate la parola «Unesco» e si sentono già gli sbadigli dal fondo della sala. Non conta più lOnu, figurarsi quanto poco interessi cosa decide la sua branca che si occupa di Educazione, Scienza e Cultura. Unappendice noiosa,oltre che inutile. Risbadiglio.
Per questo ciò che è accaduto giovedì scorso a Parigi non ha avuto grande eco sui giornali italiani che hanno snobbbato una notizia che invece andrebbe letta con più attenzione. Si tratta dellapprovazione della Convenzione sulla Diversità Culturale, votata con 148 sì (Francia ovviamente, ma anche Italia, Canada, Gran Bretagna, Russia e Cina) e due soli no: quelli di Stati Uniti e Israele. Questa convenzione, che produrrà i suoi effetti solo se ratificata da almeno trenta dei paesi firmatari (e allora se ne vedranno delle belle), prevede che ogni Stato possa prendere provvedimenti per la protezione della diversità culturale nel commercio internazionale.
Una misura contro lo strapotere dellimperialismo culturale americano, hanno scritto trionfalmente i giornali francesi, che da sempre si battono per sostenere la propria «eccezione culturale» dagli effetti negativi della globalizzazione. Una forma di «protezionismo» mascherato sotto la copertura della difesa di lingue e culture, protestano gli americani, che, come scrive il Washington Post hanno nei film e nella musica una delle maggiori voci dellexport con 16 miliardi di dollari. Per questo assicurarsi laccesso ai mercati esteri è sempre stato prioritario per gli Usa al Wto.
Ma la cosa che interessa in questo momento è che questa convenzione per la prima volta parli della cultura come di un bene diverso, una «merce» da trattare con altri parametri. Ogni Paese può quindi finanziare, con aiuti pubblici o misure legali, il cinema, le arti plastiche o la musica. Perché lo diciamo? Così, tanto per dire.
caterina.soffici@ilgiornale.it
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